Perché l’italiano dei vecchi programmi televisivi ci sembra strano – .

Perché l’italiano dei vecchi programmi televisivi ci sembra strano – .
Perché l’italiano dei vecchi programmi televisivi ci sembra strano – .

Sentendo parlare nei programmi televisivi e radiofonici, o nei film degli anni Cinquanta o Sessanta, è facile notare una differenza rispetto al modo di parlare italiano a cui siamo abituati oggi. Non è solo una differenza nel vocabolario – cioè nella scelta delle parole – che è naturalmente cambiata nel corso dei decenni. C’è infatti una differenza di intonazione e di cadenza, che forse non tutti sapremmo descrivere ma che è talmente evidente e riconoscibile da diventare oggetto di imitazioni e parodie.

È un modo di parlare che suona alle nostre orecchie un po’ artificiale, oltre che lezioso, e che oggi non si sente più da nessuna parte: né in televisione né alla radio, né in altri contesti più o meno istituzionali, e neppure parlato da persone cresciute negli anni ’50 e ’60. C’è un motivo, che è legato alla storia della diffusione e dell’evoluzione dell’italiano e dei mezzi di comunicazione di massa: quello che è certo però è che in quegli anni nessuno parlava veramente così.

«Gli spezzoni televisivi e radiofonici sono le tracce che abbiamo di come si parlava negli anni Sessanta, ma la televisione è qualcosa di diverso dal discorso spontaneo», spiega Stefania Spina, che insegna linguistica all’Università per Stranieri di Perugia. «Tant’è che se guardiamo invece i documentari, il cui desiderio esplicito era quello di raccontare la realtà, notiamo la differenza tra chi parla così e gli intervistati che parlano in dialetto».

Fino alla fine degli anni Sessanta, infatti, l’italiano era una lingua ampiamente scritta ma molto poco parlata: la percentuale di analfabeti nella popolazione era ancora molto alta e nella vita quotidiana si parlava ovunque in dialetto. Allo stesso tempo, però, la radio, arrivata nel 1924, e poi la televisione, nel 1954, erano emittenti statali che, oltre allo scopo di informare e intrattenere l’intera popolazione, avevano anche una missione educativa. Nasceva quindi in quegli anni l’esigenza di dotarsi di una lingua nazionale istituzionale.

“Non esisteva un italiano orale standard parlato normalmente e dovevamo trovarlo”, spiega Marco Biffi, professore di linguistica italiana all’Università di Firenze. «Il fiorentino era il più vicino a questo modello ma aveva ancora tratti regionali, e per compensarli si usò la pronuncia romana: venne fuori il cosiddetto fiorentino modificato», spiega Biffi, «ma è una pronuncia astratta che può essere imparato con un corso di dizione”.

Coloro che lavoravano in radio e televisione frequentavano corsi di dizione per eliminare le inflessioni regionali e adottare questa pronuncia standard, all’altezza delle emittenti nazionali. Alla fine degli anni ’60 divenne obbligatorio per i giornalisti RAI attenersi alla pronuncia indicata nell’art Dop. Dizionario ortografico e di pronuncia della lingua italiana. Oltre ai professionisti così formati, erano poche le persone comuni che parlavano in televisione, e quei pochi venivano comunque selezionati in base alla loro capacità di avvicinarsi il più possibile a quello standard italiano. Biffi spiega che se quel modo di parlare ci sembra oggi così artificioso «è proprio perché era una lingua parlata in modo innaturale, perché veniva appresa dopo la lingua materna».

«Questa attenzione formale alla lingua si riverberava nell’intonazione», continua Biffi. «C’era questa idea dell’italiano come sistema intoccabile, e venendo dalla lingua letteraria c’era poca spontaneità e familiarità nell’usarlo», aggiunge Vera Gheno, sociolinguista e tra l’altro autrice del podcast Post Parole amorevoli. Nelle parole di Spina, “era un modo di parlare finto, un modello a cui fare riferimento anche per la pronuncia e il tono, molto sobrio e molto impostato”. Era un italiano che comunque non esisteva nemmeno al di fuori della TV nelle conversazioni colte.

Verso la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, con il boom economico e la diffusione della televisione in molte case e locali, le cose cambiarono. Da un lato diminuì l’analfabetismo e si diffuse molto di più l’italiano parlato. D’altra parte si affermarono le televisioni commerciali private, cioè quelle che, a differenza della Rai, si finanziavano con la pubblicità e non avevano un’impronta istituzionale e formativa così forte: in televisione cominciarono a comparire anche persone comuni, con professioni diverse da quella di giornalista. .

Negli anni Ottanta l’italiano era di fatto la lingua di tutti, e di conseguenza divenne anche la lingua della televisione, che non aveva più alcuna ragione di riferirsi a un modello standard così lontano dalla lingua parlata. Inoltre, le televisioni locali private cominciarono a diventare nazionali e questo abituarono i telespettatori ad accenti regionali diversi dal proprio. «A quel punto le televisioni non insegnavano più l’italiano, ma riflettevano la lingua che si parlava», sintetizza Biffi.

Gheno sottolinea che le cose si sono evolute sempre di più in questa direzione negli anni successivi: «oggi in televisione sentiamo gente che fa errori di dizione, dialetti locali, ma anche difetti di pronuncia, e non è considerato disdicevole». Negli anni più recenti hanno ulteriormente contribuito una tendenza più generale a voler mostrare in televisione scene autentiche, più improvvisate e meno costruite, seguendo i gusti delle nuove generazioni di spettatori, e una generale meno attenzione alla formalità. In un recente articolo d’opinione, il giornalista Michele Serra ha criticato il discorso televisivo affermatosi negli ultimi anni, definendolo “italianissimo: non più romanesco (o veneziano, siciliano, ligure…) ma molto distante dall’italiano”, inteso , nel suo caso, come l’italiano corretto per dizione e inflessione.

 
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