«Noi, scalatori innamorati, possiamo discutere anche se non c’è ossigeno» – .

L’ultima spedizione non è andata come speravi.
“In Nepal è stato un inverno estremamente secco, ma in primavera nevicava tutti i giorni. Il rischio era troppo alto.” Nives Meroi fa una pausa, poi sorride: “Ci definiamo esperti nell’arte di scappare senza vergogna.” Romano Benet aggiunge: “È chiaro che rinunciare è dura. Ma con l’età è sempre meno un problema. Quando eravamo giovani, le aspettative erano più alte.”
Nives e Romano, la coppia di alpinisti più famosa al mondo, l’unica ad aver scalato insieme tutti i 14 Ottomila, sono tornati a casa, qui nella loro baita sui laghi di Fusine, al confine con Slovenia e Austria, dove vivono insieme a tre asini (Bianca, Ailo e Yok). Quest’anno hanno tentato la scalata dello Yalung Peak, 7.590 metri, dall’inviolata parete sud.
Non male per due 62enni.
Romano: «La curiosità è rimasta. La curiosità di esplorare una parete, di aprire una nuova via».
Nives: «Lui è l’artista, ha un occhio creativo. Io sono quello metodico, che fa la lista delle cose che servono. Come negli eserciti di un tempo, lui parte con la lancia, io arrivo più tardi con le masserizie”.
Hai sempre creduto nell’alpinismo puro: senza portatori d’alta quota né assistenza di ossigeno.
A: «Secondo noi, l’unica possibile. Se si arriva in cima con altri mezzi, non c’è divertimento»
N: «Siamo dinosauri, abbiamo creato il nostro Jurassic Park in montagne nascoste e poco frequentate».
Quando vedi le foto con gli scalatori in fila sull’Everest cosa pensi?
R: “Mi dispiace per loro. È un attacco, un insulto alla montagna”.
N: «Pazzeschi e pagano anche tantissimo per salire lassù, togliersi la maschera d’ossigeno e farsi un selfie».
Primo ricordo della montagna?
N: «Il mio è stato un approccio graduale: trekking, poi ferrate e arrampicata. La prima è stata forse la Cima delle Cenge, un percorso breve, molto diretto, bellissimo. Ho capito subito che per me non era un passatempo, ma una passione. Durante l’adolescenza ho attraversato un periodo di confusione, ho iniziato ad andare in montagna perché non avevo altro da fare».
R: «A casa nostra, su in baita, più che non sapere cosa fare, era l’unica cosa che potevamo fare. Ricordo che quando avevo 12 anni, mio ​​padre mi portò sul Mangart, la montagna davanti casa. Il giorno prima aveva comprato delle scarpe nuove, mi aveva legato e mi trascinava. A un certo punto c’erano dei bellissimi fiori di stella alpina su una parete rocciosa, mi calò e rimasi appeso. In quel momento mi innamorai della montagna e capii che bisogna fidarsi di chi ti sorregge».
Il tuo primo incontro?
N: «Avevamo 18 anni. Vivevamo entrambi a Tarvisio ma non ci eravamo mai incontrati. Studiavamo a Udine, dividevo la stanza con sua sorella. Ma non ricordo la prima volta, è passato tanto tempo».
R: «Avevo sentito dire che sarebbe andato in montagna. Mi ha spiegato come fare i nodi, io ho fatto quelli che si usano per fare il fieno. Mi ha affascinato».
Amore a prima vista?
R: «Abbiamo fatto le prime uscite insieme, ma ci siamo ritrovati dopo un anno, anche se avrei preferito il contrario».
Nives guarda il marito e sorride: «Sai che io vado per gradi…». E continua: «Penso che la prima volta che ci siamo avvicinati, a Rio Bianco. Quando ho iniziato a lavorare ho comprato una macchina, una 126 blu, e siamo andati oltre le Alpi Giulie, sulle Dolomiti, persino sul Monte Bianco».
Cosa ti attrae dell’alpinismo?
R: «Nella vita di tutti i giorni c’è sempre il pensiero di qualcosa da fare. Quando sei lassù sei completamente isolato ed è una cosa bellissima”.
N: «Non è che non hai niente da fare, anzi hai compiti importantissimi che sono quello che ti fanno sopravvivere. Però ti liberi dalle cose superflue, hai la sensazione di avere il controllo della tua vita».
Quando penso alle montagne, penso a una relazione tra l’individuo e la natura. Com’è per voi che siete sposati?
N: «Siamo però due solitudini unite come coppia. Tutti sono soli”.
A: “Sono d’accordo, in quei momenti ci sei solo tu. Anche se è chiaro che sai che il tuo partner è lì.”
È diverso essere una coppia rispetto ad avere qualcun altro coinvolto?
A: «Sicuramente presti ancora più attenzione. Anzi, conoscendolo così bene, sai come si muove e dove può arrivare».
Durante la scalata del Kangchenjunga nel 2009, Romano ti sei sentito male. L’aplasia midollare acuta, il trapianto, le cure, la riabilitazione e il ritorno dopo due anni. Nives era in lizza per diventare la prima donna a scalare tutti gli ottomila.
Ha rinunciato per stare vicino a tuo marito. Ha esitato?
“Mai, nemmeno per un momento. È bello stabilire dei record, ma c’è qualcosa di più importante. Ed è giusto dare un senso alle cose, anche ai sacrifici».
Dopotutto, anche Romano ha fatto dei sacrifici. È un grande alpinista, ma in qualche modo ha accettato di vivere all’ombra di Nives.
N: «È vero, non è valorizzato quanto meriterebbe. E infatti ci considerano sempre come una coppia, mai come una cordata. C’è sempre questo sapore di romanzo rosa che in qualche modo distorce il significato di ciò che abbiamo fatto. A 8.000 metri non c’è niente di romantico, è pura sopravvivenza. Questo per me è il pregio, arrivare sempre insieme su tutti gli Ottomila, senza ossigeno né portatori».
Qual è l’esperienza che ricordi con più affetto?
R: «Tornare sul monte dove ero stato malato. Mi hanno dato per spacciato, mi hanno detto che se avessi fatto come potevo sarei rimasto in ufficio. Ho provato una soddisfazione enorme, non per la vetta, per me era importante tornare a fare quello che mi piaceva”.
N: «Per me è stato il K2, anzi il K in due. Eravamo solo noi due, è stata un’emozione fortissima. Ho iniziato a piangere, non è mai più successo”.
Il momento più difficile?
N: «La discesa quando Romano stava male è stata terribile. Ma mi ha anche salvato diverse volte. Per esempio, sul Lhotse si è accorto che avevo un edema cerebrale, mi ha fatto subito un’iniezione di cortisone e sono riuscito a tornare al campo base».
Litigare in quota?
R: «Succede. Ma non sono io, è lei che litiga…».
N: «Classica risposta maschile… In realtà potremmo essere oggetto di uno studio sulle dinamiche di coppia a diversi gradi di ipossia. All’inizio potevamo sostenere solo fino a 7000 metri, poi siamo rimasti senza ossigeno. Adesso, con la formazione e l’impegno, possiamo arrivare ancora più in alto. Di solito è per banalità».
Un esempio?
N: «Sull’Annapurna, il nostro ultimo 8000, non eravamo d’accordo su quale fosse la cima più alta. Per sicurezza abbiamo fatto entrambe le cose. Alla fine aveva ragione lui.»
Non ti piacciono i social media.
R: «È una scelta, anche se ci ha limitato. È anche un lavoro impegnativo, se lo fai devi stargli dietro”.
N: «La bellezza della vita al campo base è anche l’ozio, un’esperienza deve essere digerita, distillata. Invece vedo tutti gli altri armeggiare con i loro telefoni, fare interviste o telefonate. E non capisco mai dove stia il confine tra la curiosità delle persone e il voyeurismo».
Invece ti piace leggere.
R: «Tutto. per quanto mi riguarda, soprattutto romanzi d’avventura e gialli. L’ultima volta abbiamo portato un libro di Simenon”.
N: «Anche i superclassici, quei libri che non avresti il ​​coraggio di iniziare a casa. Ho letto di recente FuroreChe meraviglia. Non vedevo l’ora di tornare giù per continuare. A volte facevamo anche delle cose ignobili, dividevamo il libro in pezzi e li lasciavamo nei diversi campi base.”
Qual è la lezione della montagna?
N: «Allenare la pazienza, l’umiltà, non scoraggiarsi mai, a volte rinunciare e ricominciare. Ci ha dato gli strumenti per affrontare le difficoltà della vita».
R: «Ti insegna che le scorciatoie non portano da nessuna parte. E poi dopo 7,00 metri mi sento bene, fisicamente e psicologicamente. Sai cos’è, lì sei più in alto dell’orizzonte, vedi le stelle dall’alto».

 
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