‘Civil War’, la guerra che non vogliamo vedere. Il film su un mondo senza salvezza e senza più storie da raccontare – .

E se le fosse comuni, gli impiccati appesi ai cavalcavia, i soldati che si sparavano imprecando nella stessa lingua non fossero qualcosa che ci è arrivato da lontano, ma è successo nelle nostre strade, sotto le nostre case, a noi? E se la guerra civile non scoppiasse in qualche angolo dell’Africa o nei Balcani, ma in quella che ci ostiniamo a definire la più importante democrazia occidentale, gli Stati Uniti d’America? Questo è il presupposto da cui si parte Guerra civileil film di Alex Garland che sta facendo scalpore in patria e arriverà in Italia il 18 aprile. La critica è quasi unanimemente entusiasta. L’opinione pubblica è divisa: molti tendono a vedere in esso uno specchio distorto che si prende gioco di lui e glorifica il nemico. Poiché è sempre negli occhi di chi guarda, dirò subito quello che secondo me è il tema centrale del film: la morte del giornalismo e la feroce sopravvivenza dell’immagine.

La premessa è un conflitto che contrappone gli Stati Uniti come li conoscevamo a una forza secessionista “occidentale”, che riunisce California e Texas, con il sostegno della Florida. Che sia poco plausibile è irrilevante, gli spari ci catapultano nell’epicentro degli scontri, senza preoccuparsi di farci capire chi è chi. Non esistono buoni o cattivi, destra o sinistra, Trump o Biden, tranne coloro che cercano ostinatamente di identificarli. Tutto quello che sappiamo è che il presidente è al suo terzo mandato e questo basta per far capire che la democrazia ha ceduto. C’è stato, da qualche parte nel mondo, un “massacro di antifascisti”, ma non è chiaro se siano stati carnefici o vittime. L’ambiguità è voluta, come se il male non avesse una divisa piuttosto che un’altra e schierarsi fosse superfluo.


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In questo scenario, un quartetto di rappresentanti della stampa intraprende un tortuoso viaggio da New York a Washington per tentare quello che è considerato “l’ultimo articolo possibile”: l’intervista al presidente prima che imbocchi la strada di “Gheddafi, Mussolini, Ceausescu”. I quattro sono zombie più che sopravvissuti: portano con sé la morte. Il vecchio scrive per “ciò che resta del New York Times”. L’autista della Reuters, alla quale non manderà mai un dispaccio, una riga. Poi ci sono due fotografi: il veterano Kirsten Dunst, che si stacca lungo la strada e smette di fotografare, e una giovanissima, presunta libera professionista, spericolata e involontaria, che osa a spese degli altri. C’è una considerazione chiave sul loro ruolo. Dicono: testimoniamo, mostriamo, spetta a chi legge e guarda formarsi un’opinione. Da quando i commentatori hanno soppiantato i cronisti, non è più così: i pensieri arrivano preconfezionati e si trasmettono non per adesione ma per condivisione, forma alternativa di contagio. Ma è davvero possibile la neutralità del racconto? Di più: la storia è ancora possibile o ci accontentiamo di istantanee veloci e di prese di posizione rapide? Come è stato scritto sul sito dedicato al critico cinematografico Roger Ebert, il titolo Guerra civile si riferisce non solo all’America del futuro, ma anche al giornalismo di oggi.

© Miller Avenue Productions LLC.


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È probabile che questo film lasci freddo il pubblico non americano. Dopotutto, per chi vive a Roma o Parigi, vedere un parco divertimenti natalizio del West Virginia infestato da cecchini replica la stessa superficiale empatia suscitata da Fallujah o Mariupol: vite che non sono le nostre. Non sarà un caso che le famiglie dei due fotografi, nel Missouri e in Colorado, non percepiscano la violenza e forse nemmeno l’esistenza della guerra civile in corso. Come molte cose in America, ciò che accade sulle coste riguarda le coste. Imperterrito, la pancia continua a digerire.

Quanto ai protagonisti, continuano il loro viaggio sulla strada verso “l’ultimo articolo possibile” in un crescendo di orrori che l’incontro con un soldato nazionalista e spietato, intento ad accatastare cadaveri, porta al culmine. Da lì non c’è più umanità, da lì Kirsten Dunst mette via la macchina fotografica e si limita a guardare, che resta il modo migliore per capire. È un viaggio al termine della notte della democrazia: chi si lascia turbare dagli eventi non avrà il tempo di denunciarli. C’è una sottile ma infinita differenza tra sopravvivenza e salvezza. Ci sono situazioni e mondi a cui non vale la pena resistere. Il cinismo è un antidoto omeopatico: veleno su veleno. Catturare la frase storica o scattare la fotografia emblematica fa la storia? Oppure la storia si fa cambiandola: non sostenendola, ma reagendo? Il lungo viaggio della pattuglia di giornalisti è alla caccia del Santo Graal e quel trofeo è un’immagine. Tuttavia Guerra civile non è altro che una sequenza (della durata di 109 minuti) di immagini. Uno specchio capovolto che vorrebbe far riflettere, ma a volte si astiene dal riflettere.

© Miller Avenue Productions LLC.


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Alla fine di una proiezione conta più l’effetto che il giudizio. Per me non andava a dormire prima di aver visto un episodio di un ironico poliziesco in cui un detective infallibile e fragile individua sempre chi è il colpevole: l’immagine scaccia l’immagine.

 
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