Ultimo Banco di D’Avenia | 208. Reasons for joy

Ultimo Banco di D’Avenia | 208. Reasons for joy
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Il bellissimo documentario Lascia fare di Michael Lindsay-Hogg, recentemente rieditato dal regista Peter Jackson, racconta la storia dell’ultimo concerto dei Beatles, eseguito a mezzogiorno del 30 gennaio 1969 sul tetto dell’ Registri Apple a Londra. Le riprese seguono il processo creativo del gruppo che si scioglierà di lì a poco. In mezzo a contrasti evidenti, avviene poi un miracolo, quella cosa che chiamiamo “grazia”, una bellezza che non è la somma di addizioni ma la loro sintesi in nuova vita, perché la bellezza non è qualcosa di controllabile ma ciò che si può solo raggiungere. dare una possibilità di accadere. E la musica, tra le arti, è forse quella che più lo dimostra. Il concerto supera i desideri ormai lontani dei quattro Beatles, il canto supera il disincanto, e infatti, solo per ascoltarli, la gente sale sui tetti, si accalca in strada, tanto che la polizia deve intervenire per ristabilire l’ordine (la grazia crea l’ordine della libertà, l’opposto di quello del controllo). Note e parole, dopo 55 anni, ci trasportano ancora nello spazio-tempo della gioia. Lascia fare: let it be, un invito ad accettare che tutto passa, anche i Beatles, ma soprattutto a stupirsi di ciò che resta per sempre. Scoprire l’eterno nel mortale, proprio perché mortale. Una vita felice è infatti un equilibrio tra il lasciar essere e il fare. Come trovarlo?

Ossessionati dal controllo, soffochiamo la vita, che è invece una sinergia di fare e lasciare essere, prima in noi stessi e poi nel mondo, come avviene in un concerto. L’accordo di voci e suoni è presente in natura in modo sorprendente, come ha mostrato qualche anno fa Davide Monacchi nel pluripremiato documentario Coro del crepuscolotratto dal progetto «Frammenti di Esclusione» volto a esplorare acusticamente le foreste equatoriali più antiche, registrando i suoni delle aree a più alta biodiversità. Chi ascolta (l’ho fatto in una sfera buia con audio immersivo durante la settimana del design a Milano) diventa parte della foresta, grazie alla tecnologia sonora 3D che ha catturato i richiami di insetti, uccelli, anfibi, mammiferi (e persino alberi). Monacchi ha poi tradotto i suoni in uno spettrogramma acustico dell’ecosistema, dove si vedono le bande sonore in cui sono inseriti i diversi animali. Il fatto commovente è un’armonia in cui i richiami non si sovrappongono, ma creano accordi: o occupano frequenze diverse o si alternano se utilizzano la stessa, secondo uno spartito invisibile. Purtroppo, però, quando l’inquinamento acustico umano occupa alcune frequenze, gli animali che le utilizzano sono costretti ad abbandonare l’ecosistema, e alcuni si estinguono: dal concerto si passa allo smarrimento, dall’accordo al disaccordo, dal canto al disincanto. In natura, quindi, ogni “voce” occupa il suo posto e si armonizza con le altre. Questa sinfonia, a cui saremmo più educati se frequentassimo i suoni naturali (è significativo della nostra nostalgia di pace che tra le playlist più seguite sulle piattaforme ci siano proprio quelle che riproducono questi suoni), è ciò a cui aspiriamo, ma spesso siamo noi stessi a distruggerla. Infatti, se potessimo fare lo spettrogramma del nostro contesto acustico, scopriremmo quanto siamo esclusi o fuggiamo dalla nostra stessa banda sonora, o forse occupiamo quella altrui. La comunicazione odierna, urlata e saturata da chi ha i mezzi per fare più rumore, tende a coprire le voci, soprattutto quella dei giovani, perché la frequenza su cui esercitarla è occupata da chi non dovrebbe esserci. Scivoliamo così nell’univocità (che significa “una sola voce”) e nella monotonia (“un solo tono”) del controllo. Per vivere, invece, abbiamo bisogno di un ecosistema umano corale che consenta a ciascuno di scoprire e utilizzare la propria voce, che è il modo che abbiamo scelto per indicare, metaforicamente, l’unicità personale: trovare la propria voce (da qui la vocazione) è infatti sinonimo di vita autentica. Ma vocazione significa anche convocazione: coralità, lo strumento è un’orchestra, il singolo è una comunità. Siamo fatti perché le voci si armonizzino nella loro diversità in una sinfonia che non è data dalla loro somma ma da un superamento collaborativo, come narra affascinantemente Tolkien nel racconto che dà origine al suo mondo, il Silmarillion. I protagonisti dell’origine dell’universo sono spiriti che vivono prima del tempo insieme a Eru Ilúvatar, il dio supremo. Eru infatti li convoca e propone un grande tema musicale, chiedendo loro di svilupparlo per dare vita a tutte le cose. La bellezza si espande e si incarna coralmente finché uno di questi spiriti non decide di mettersi in proprio, tradendo l’armonia del tema e dell’orchestra: il male è uno smarrimento, un atto che impedisce di lasciarsi accadere. Lascia fare. Anche a scuola cerchiamo di fare lo stesso aiutando i ragazzi a trovare la propria voce, e per me è particolarmente evidente nei giorni della laurea.

Ma abbiamo ancora un tema musicale da sviluppare? C’è ancora una partitura?

Alla fine dell’anno i diplomati mi regalarono un’edizione delOdissealo stesso con cui leggevamo ad alta voce la poesia per intero durante il primo dei cinque anni di liceo, quello vissuto a distanza. Quell’esperienza di lettura in cui ogni voce incarnava un personaggio proveniente da un punto diverso e disperso della città, è rimasta nella nostra memoria come un concerto, quando invece l’armonia veniva distrutta dalla lontananza. Sulla prima pagina del libro di una storia di tremila anni fa hanno apposto le loro firme, quelle che cominciano a usare per le loro nuove responsabilità. Dentro c’erano le loro voci. Ciascuno, infatti, aveva sottolineato il passaggio più caro, accostando il proprio nome alle parole di Omero. Quindi la mia collezione di Odissea Ho aggiunto quello più bello, fatto di nomi e voci (versi). Quando lo apro ascolto musica “di classe”: volti e vocazioni, cioè la scuola, un luogo dove, se non fossimo gravati da burocrazia, prestazioni e impegni che poco hanno a che fare con l’educazione, siamo chiamati a cercare la equilibrio tra fare e lasciare essere, per evitare sia il controllo che l’indifferenza. E non è forse questa l’opera della vita? Questo libro, che è diventato per loro una sorta di tema musicale da sviluppare, sarà per me un Inno alla gioia, in cui ogni voce, unica, come ogni vocazione, per altezza, timbro, intensità e durata, è legata alle altre in una convocazione che supera le singolarità e il tempo. E l’amore non è forse essere “la voce che ti è dovuta”, come il titolo del libro di un poeta innamorato? Quando torno a casa tardi per pranzo dopo gli esami finali e trovo un post-it con su scritto “ti amo” e “questo lo potresti mangiare”, non sto ascoltando il canto quotidiano della vita? Un’armonia tra fare e lasciare essere, come il giardiniere si prende cura delle sue piante?

Nella musica tutto questo avviene grazie al silenzio. Con la pausa scolastica, anche ilUltima panchina. Il mio augurio è che tu possa (ri-)ritrovare la tua voce, unica e necessaria al concerto della vita. Lo smarrimento, il disaccordo e il disincanto in cui a volte cadiamo non sono realtà, ma un tradimento della voce che ci spetta e di coloro a cui, per ecosistema, siamo legati. La vita aspira e tende infatti al coro delle foreste vergini e al concerto sui tetti di una città rumorosa. Spero che anche questa rubrica vi abbia fischiato almeno una melodia gioiosa, che vi ringrazio per aver ascoltato anche nei lunedì più faticosi. Ci rivedremo a settembre per una nuova canzone.

 
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