Questo articolo è pubblicato sul numero 19 di Vanity Fair in edicola fino al 7 maggio 2024.
Nel 1981 il regista americano John Waters realizzò un film, Poliestere, dove all’ingresso del cinema ti davano un gratta e annusa con tanti numeri. Quando sullo schermo appariva un numero, lo incidevi sulla carta e potevi sentire l’odore della scena del film. Principalmente erano le “puzze”, la scarpa da ginnastica usata, il fritto di McDonald’s, l’innocente scoreggia emessa dal protagonista. Città Odorama è il progetto che l’artista coreana Koo Jeong A ha realizzato per il padiglione della Repubblica di Corea alla Biennale di Venezia (fino al 24 novembre). A differenza del film, non si tratta di puzze ma di 17 odori e profumi che portano con sé l’identità immateriale dei luoghi. Una sorta di bambino in cima ad un piedistallo spruzza le varie fragranze nel padiglione trasparente. Lo spettatore annusa, ricorda, immagina. L’artista ritiene che gli odori siano la forma ultima dell’individualità dei luoghi e degli individui. In un mondo dove l’architettura delle città è sempre più uguale, dove le persone indossano gli stessi marchi senza distinzione di genere e nazionalità, l’odore dei luoghi – ma anche quello della pioggia, della vegetazione che cambia durante le stagioni, del cibo – per Koo Jeong A è il GPS dell’anima e la rete invisibile che ci connette con gli altri superando barriere fisiche, geografiche e politiche. Il Covid, togliendo l’olfatto, era una forma di “odore-clastia” biologica che, se fosse continuata, avrebbe reso inutile il lavoro di questo artista. Possiamo invece abbandonarci alla fantasia, guidati dalle fragranze invisibili che ci portano in luoghi lontani. Direbbe Cartesio foetor ergo sum, puzzo dunque sono. E se questo tipo di arte non può salvare il mondo, una bella doccia forse sì.
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