un film sulla libertà nell’Italia del secondo dopoguerra – .

Il film è basato sul romanzo omonimo Il mio posto è quiuscito nelle sale il 9 maggio e regia di Cristiano Bortone e Daniela Poggioautore del libro, è un’opera che cattura l’anima di un’epoca travagliataoffrendo al pubblico uno sguardo intimo sulle sfide diL’Italia del secondo dopoguerra.

Ambientato nella Calabria degli anni Quaranta, il film segue le vicende di Marta – interpretato dalla giovanissima Ludovica Martino – e Michele, una giovane coppia e innamorata che si trova ad affrontare le dure prove della guerra: parte per il fronte e non torna più; si ritrova incinta e sola in un ambiente tradizionalista e conservatore, dove la gravidanza al di fuori del matrimonio la porta a subire giudizi e pressioni sociali.

Qui è dove Il destino di Marta è intrecciato con quello di Lorenzo (interpretato da Marco Leonardi), assistente del parroco, un uomo dai gusti raffinati e dall’animo generoso, ma emarginato dalla società a causa della sua omosessualità, ancora fortemente stigmatizzata.

Restituibile Il mio posto è qui un film straordinario è il delicata narrazione di una relazione insolita, che sfida i confini imposti dalla societàcon i due protagonisti che trovano conforto e comprensione l’uno nell’altro, creando un legame che va oltre le convenzioni e le etichette. Le performance dell’attrice protagonista e dell’attore sono impeccabili: Ludovica Martino offre una performance commovente e autentica, trasmettendo al pubblico la lotta interiore del suo personaggio per trovare il suo posto nel mondo; Marco Leonardi conferisce invece al ruolo che interpreta una profondità e una sensibilità che lo rendono indimenticabile, incarnando la ricerca di libertà e autenticità in un’epoca di oppressione e conformismo.

Il merito dell’alta qualità del film va però anche alla regia: Bortone e Poggio colgono magistralmente l’essenza della Calabria durante la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra, con una fotografia che trasmette la durezza e la bellezza di un paesaggio ancora segnato dalla guerra e dalla povertà. Il tutto arricchito dall’utilizzo del dialetto calabrese dell’epoca, che contribuisce a rendere il film ancora più autentico, immergendo lo spettatore nell’atmosfera degli anni Quaranta.

«Ho scelto il ’46 perché mi sembrava un momento simbolico per l’Italia: era appena finita la seconda guerra mondiale e erano in corso tutta una serie di rivoluzioni sociali che portavano grandi speranze, anche se ci sono volute molti anni prima che qualcosa cambiasse davvero, soprattutto per quanto riguarda il ruolo delle donne e l’integrazione della comunità omosessuale nella società», dice Daniela Poggio.

Ma Il mio posto è qui non è solo un dramma storico: è anche a profonda riflessione sulla società italiana del dopoguerra, un momento di transizione e cambiamento in cui le vecchie tradizioni si scontrano con nuove idee di emancipazione e libertà. Nel complesso il film cattura magistralmente l’atmosfera di un tempo in cui le donne cominciavano a rivendicare i propri diritti e sognare un futuro fuori dai confini imposti dalla società patriarcale.

Attraverso la storia di Marta e Lorenzo, ci invita a riflettere sulla natura della libertà e sull’importanza di essere fedeli a se stessi, nonostante le pressioni sociali: un messaggio universale che ancora oggi, in un mondo in cui l’omofobia e il sessismo continuano ad essere tristemente presenti, ha bisogno di essere ascoltato e diffuso.

Il 22 aprile, alle La Casa del Cinema di Roma, durante l’anteprima del film, i registi hanno chiacchierato con i giornalisti per parlare delle difficoltà e dei retroscena delle ripreseE Il punto di svolta era presente.

Tra le sfide affrontate da Poggio e Bortone c’è stata la scena in cui il personaggio di Marta si traveste da uomo che «poteva essere una scena un po’ complicata perché poteva essere ridicola, contorta. Eppure nonostante questa paura, o meglio, forse proprio grazie a questa paura, eravamo sempre vigili e attenti e penso che il risultato sia molto poetico”.

Per ogni regista trasporre il romanzo sul grande schermo è sempre impegnativo. Come spiega Bortone, ogni adattamento vive di vincoli e sacrifici, e Il mio posto è qui non era esente. «Il pubblico vede il film a valle, ma il processo è complicato e pieno di sfide. Ogni film ha il suo e in questo caso la cosa più bella è stata riuscire a trasmettere il senso del romanzo, che riporta uno sguardo molto femminile e una serie di sensibilità che speriamo arrivino allo spettatore.”

E, sempre parlando di trasposizione, lo hanno detto i dirigenti hanno lavorato duro per rappresentare il carattere di Lorenzo senza cadere negli stereotipi classici, donando rotondità e autenticità al protagonista e rispettando l’ambientazione storica e sociale del film. Allo stesso modo, la descrizione del Mezzogiorno d’Italia negli anni Quaranta è stata un buon banco di prova: i registi, infatti, anche in questo caso volevano evitare la classica rappresentazione romantica e idealizzata, mostrando il volto dei luoghi devastati dalla guerra e dalla povertàcon tutte le sue contraddizioni e le difficoltà quotidiane vissute dalla popolazione.

Quella di Il mio posto è qui è quindi una storia di libertà e di riscatto, una libertà acquisita anche grazie all’accettazione degli altri: se Marta non avesse superato i suoi pregiudizi, non avrebbe costruito quel rapporto intimo e speciale con Lorenzo. E senza chissà se avrebbe trovato il modo e il coraggio di prendere le proprie decisioni.

«Il tema della diversità è fondamentale, anche se lo definirei più come un inno all’identità: diversità da chi? Ha già le categorie. Invece una cosa che mi sta a cuore – spiega Bortone – è il fatto che siamo tutti diversi, quindi la differenza tra noi è un vantaggio”.

Secondo la direttrice «c’è ancora bisogno di parlare di alcuni temi come l’emancipazione femminile perché nonostante tutte le battaglie sociali e l’acquisizione di alcuni diritti non c’è stata ancora una capacità completa di ripensare in modo sano il rapporto uomo-donna. Questi problemi devono essere affrontati da film che siano in grado di raggiungere il pubblico. Il nostro non è un film sperimentale, chiuso nella storia, o depressivo, ma un film narrativo e ispirazionale. Per portare queste tematiche al grande pubblico è importante emozionare ed emozionare”.

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