In Europa lo spettro dell’astensionismo fa rabbrividire i partiti.

Roma, 8 giugno. (askanews) – Lo spettro dell’astensionismo si aggira per tutta l’Europa, impegnata nel decimo turno elettorale della sua storia. Ma incombe soprattutto sull’Italia, che dall’euroentusiasmo delle prime elezioni per il Parlamento europeo potrebbe questa volta vedere la partecipazione nazionale scendere intorno al 50% e ritrovarsi al di sotto della media Ue.

Nel corso dei decenni, l’affluenza media europea per il rinnovo del Parlamento dell’Unione ha subito un calo pressoché costante, passando dal 62% del primo voto nel 1979 a poco più del 50% nell’ultimo turno del 2019. Guardando le serie storiche ( (ai 6 Paesi fondatori dell’UE nel 1958, e agli altri 3 entrati nel 1973, si sono aggiunti nel frattempo altri 19 Paesi), notiamo che dopo il 61,9% nel 1979, l’affluenza media europea nel 1984 è stata infatti scese al 58,9%, nel 1989 scese al 58,4% e nel 1994 al 56,6%. Poi nel 1999 è scesa drasticamente al 49,5%, nel 2004 al 45,4%, nel 2009 al 42,9% e nel 2014, la cifra più bassa di sempre, al 42,6%. Poi c’è stato un buon rimbalzo nel 2019, quando è salito al 50,6%.

Quale sarà l’affluenza alle urne a livello continentale quest’anno quando le urne si chiuderanno domenica sera? Difficile fare previsioni, sia perché l’uscita nel 2020 del Regno Unito (che ha sempre avuto percentuali altissime di astensione alle elezioni europee) potrebbe influenzare il dato al rialzo, sia perché molto dipende dalle dinamiche interne di ciascun Paese. . Secondo una ricerca della Fondazione Bertelsmann, l’affluenza media proseguirà la ripresa registrata nel 2019, soprattutto nei Paesi del Nord. Quasi sicuramente, però, l’Italia andrà in controtendenza. Qui il calo della partecipazione alle elezioni europee ha mostrato un andamento altrettanto decrescente, ma più marcato che nel resto d’Europa, seppur “viziato” da percentuali iniziali di partecipazione più elevate. Nella prima votazione del 1979 l’affluenza italiana fu dell’85,6%; nel 1984 scese all’82,4% e nel 1989 all’81%. Nel 1994 si è verificato un forte calo, al 73,6%, e nel 1999 al 69,7%. Nel 2004 l’affluenza alle urne salì al 71,7% ma già nel 2009 cominciò nuovamente a diminuire, raggiungendo il 66,4%. Poi nel 2014 era del 57,2% e nel 2019 del 54,5%, posizionandosi comunque appena al di sopra della media europea.

Domenica, quindi, a urne chiuse, l’Italia potrebbe ritrovarsi per la prima volta sotto la media Ue e ritrovarsi drammaticamente vicino alla soglia di astensione del 50%. Va detto che in Italia la tendenza all’astensionismo mostra dati più allarmanti nelle elezioni europee che in quelle politiche (36,1% delle astensioni nel 2022), segno che l’Ue è percepita come un’entità più distante. A ben vedere, però, le differenze tra le due elezioni scompaiono se si esaminano i parametri socio-economici dei territori maggiormente colpiti dall’astensione. Secondo una ricerca Edjnet-Sole 24 Ore, sia nelle elezioni politiche che in quelle europee, i comuni italiani che hanno registrato un maggiore astensionismo hanno mediamente un indice di vecchiaia più alto rispetto alla media nazionale e un rapporto di sostanziale parità tra cittadini in età non attiva e quelli in età attiva. Cala anche l’incidenza dei laureati (sotto il 30%, contro una media del 36%) e raddoppia l’analfabetismo (dallo 0,6% all’1,2%). Ma è soprattutto nel confronto economico che si rivelano le radici dell’astensionismo: a fronte di una disoccupazione media nazionale dell’8,8%, nei comuni più “astensionisti” il tasso supera il 13% e il reddito dichiarato è inferiore del 23% rispetto al media nazionale. Questa evidenza coincide con una recente analisi del Censis, secondo la quale la ridotta partecipazione elettorale e la scarsa fiducia nelle istituzioni europee sono legate, a livello continentale, al lungo ciclo di “declassamento sociale vissuto negli ultimi quindici anni da un cittadino europeo su tre: oltre 150 milioni di cittadini – sottolinea il Rapporto sullo stato dell’Unione – che hanno visto ridursi i propri livelli di reddito, che vivono in province periferiche agli assi produttivi dell’Europa e che a causa di questo inesorabile scivolamento manifestano di conseguenza il profondo malessere dei perdenti, il che li porta ad allontanarsi anche dal cuore politico europeo”. Un identikit che, nel caso italiano, sembra coincidere quasi perfettamente con i parametri socioeconomici del Mezzogiorno.

Lo conferma indirettamente il politologo della Luiss Roberto D’Alimonte in una recente intervista a Repubblica, secondo cui “nel 2019 la differenza” in termini di elettori “tra le regioni del Centro Nord e quelle del Centro Sud era di 17 punti e questa volta il divario potrebbe ampliarsi ulteriormente. In questo contesto, è inevitabile che l’astensionismo sia più temibile per i partiti forti al Sud, M5s in primis, visto che, continua D’Alimonte, “in proporzione al totale, i voti meridionali rappresentano il 65% dei voti Movimento; 49 per Forza Italia, 35 per Fratelli d’Italia, 34 per il Pd”. Se solo un elettore italiano su due andasse a votare tra sabato e domenica si porrebbe un problema politico per tutti i partiti, perché, come ha scritto il Censis, “ci troveremo di fronte a qualcosa che può mettere in crisi i meccanismi stessi di funzionamento delle democrazie liberali” e poi Perché tutti i partiti si troveranno di fronte una metà del Paese – ha osservato Lina Palmerini sul Sole 24 Ore – che non si sente rappresentato né dal governo né dalle forze dell’opposizione. Ma forse, paradossalmente, un ulteriore problema potrebbe sorgere per quelle forze politiche più populiste, che hanno cavalcato il malcontento delle persone finite ai margini – che in Italia si trovano soprattutto al Sud – e che non saranno riuscite a convincerli ad andare alle urne. (di Massimo Santucci)

 
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