L’Italia può permettersi di rinunciare al talento di Federico Chiesa? – .

L’Italia può permettersi di rinunciare al talento di Federico Chiesa? – .
L’Italia può permettersi di rinunciare al talento di Federico Chiesa? – .

Ogni volta che parliamo e scriviamo di Federico Chiesa, c’è sempre uno strano senso di incompletezza, di occasione sprecata. Siamo lì a chiederci quanto e come un potenziale talento generazionale non sia mai riuscito a esprimersi appieno a causa della rigidità di contesti, moduli e sistemi di gioco. Allo stesso tempo, però, nutriamo inevitabili dubbi su un giocatore che non è mai migliorato davvero e che in alcuni casi è addirittura sembrato regredire data la difficoltà di recupero da un infortunio che probabilmente lo ha condizionato più di quanto lui stesso si aspettasse. Un giocatore, quindi, a cui continua a mancare qualcosa per essere veramente generazionale e davvero indispensabile all’interno delle squadre di cui dovrebbe essere il leader tecnico ed emotivo: la Juventus e l’Italia.

In una recente intervista rilasciata a Francia Calcio, Chiesa è stato quasi costretto ad ammettere – a sé stesso prima ancora che agli altri – che «l’infortunio al ginocchio sinistro dopo l’Europeo vinto con l’Italia e poco prima di diventare definitivamente un giocatore della Juve ha rallentato la mia carriera, ma mi ha insegnato molto. Prima ero un giocatore più istintivo e impulsivo, e forse oggi il mio gioco è un po’ cambiato». Si è poi detto convinto di essere molto vicino a tornare «al livello che avevo prima di questa battuta d’arresto. Ora si tratta di diventare ancora più forte». Nelle risposte successive, Chiesa si è poi soffermato sull’importanza dell’aspetto psicologico e sulla necessità di saper superare i momenti di difficoltà come prerequisito imprescindibile per diventare «un top player, un campione». Non sono affermazioni banali e assomigliano molto a un tentativo di autocondizionamento, come se fosse lui il primo a rendersi conto di cosa gli manca e dove deve arrivare, solo che non ha ancora capito come arrivarci. E così ogni sforzo in questa direzione è apparso inutile, superfluo, ridondante, trasformando rapidamente agonismo e motivazione in frustrazione e rabbia, con evidenti ricadute sulle sue prestazioni: “Chiesa ci fa vedere in allenamento chi è e cosa sa fare. Ogni tanto non gli riesce qualcosa ma questo fa parte delle caratteristiche dei giocatori che hanno estro e qualità”, ha dichiarato Spalletti prima dell’amichevole con la Bosnia, partita in cui Chiesa sarebbe stato autore dell’assist per il gol di Frattesi ma si sarebbe anche distinto per l’estemporaneità e l’incostanza del suo gesto.

Per questo, quando il ct decise di escluderlo dalla formazione titolare per la sfida contro la Croazia, ci sorprendemmo fino a un certo punto. E forse nemmeno lo stesso Federico si sorprese più di tanto: del resto, dall’inizio della sua carriera aspettiamo che Chiesa diventi un calciatore che ancora non è. E la partita di Lipsia, per contenuti tattici e psicologici, ha rappresentato un tipo di sfida individuale e collettiva a cui non sempre si era dimostrato all’altezza nelle ultime stagioni. In più, c’era il recentissimo precedente della sfida contro la Spagna, 64 minuti di corsa senza meta e a testa bassa, mani sui fianchi a ogni palla persa, tiri fuori centro, tocchi sempre troppo corti o troppo lunghi, controlli sbagliati, palleggi tentati ma mai riusciti. Il ricordo della semifinale di un’altra Italia-Spagna, quella di Euro 2020, e di quel gol che ha rappresentato la sua epifania sulla scena internazionale non era mai sembrato così lontano nello spazio e nel tempo.

Vista da questa prospettiva, quindi, la decisione di Spalletti di provare a sfruttarlo in un altro modo, utilizzandolo come cambiamento radicale giocare sulla stanchezza degli avversari che avrebbero dovuto trattenerlo nell’uno contro uno, aveva perfettamente senso, anche nel mare di scelte discutibili che hanno caratterizzato le prime tre partite dell’Italia a Euro 2024 – in cui poco o niente ha funzionato. Anche perché poi, quando è entrato in campo, Chiesa ha fatto la partita l’ha rottoo almeno è apparso più vivo e presente al suo interno, proponendo spunti, dribbling, correndo con e senza palla, soprattutto un linguaggio del corpo completamente opposto a quello preoccupante di quattro giorni prima. Viene quindi da chiedersi quale sia la verità, cosa dobbiamo aspettarci da Federico Chiesa ora che sono alle porte gli incontri ad eliminazione diretta, quelli che appena tre anni fa lo avevano consacrato come uno dei migliori esterni offensivi d’Europa e che oggi, invece, sembrano relegarlo a un ruolo marginale, quello di comprimario in un film di cui avrebbe dovuto scrivere l’intera sceneggiatura.

Rispondere a queste domande non è così semplice come potrebbe sembrare. Soprattutto perché si basa su quello strano paradosso per cui, in questo momento, questa Nazionale in cerca di autore, equilibrio e identità, sembra quasi non potersi permettere la presenza dal primo minuto del giocatore potenzialmente più importante di tutti, uno dei pochi – forse l’unico in tutta la rosa azzurra – capace di generare superiorità numerica attraverso il palleggio, ovvero il fondamentale che nella percezione comune è mancato di più nei primi 270 minuti del torneo.

A confermarlo è stato lo stesso Spalletti, più o meno indirettamente, quando, intervistato da Cielo a meno di un’ora dal fischio d’inizio della sfida contro i croati, ha spiegato con precise motivazioni tattiche l’esclusione di Chiesa dalla formazione titolare: “Avevo bisogno di mettere in campo un giocatore più vicino alla prima punta, perché ad esempio Scamacca era piuttosto isolato nell’ultima partita. E poi c’è la necessità di assorbire i loro tagli dietro la linea di pressione: con questa formazione c’è la possibilità di mantenere intatta la qualità in mezzo al campo e di rimettere in moto le ali”. Insomma, la differenza tra Chiesa titolare e Chiesa primo sostituto da utilizzare quando le cose vanno male non è, quindi, il modulo in sé, ma l’interpretazione e la sostenibilità dello stesso: in un fluido 3-4-2- 1 come quello visto nella partita contro l’Albania, Chiesa ha una libertà d’azione quasi totale nella ricerca della zona d’influenza per sfruttare le sue qualità nell’uno contro uno e la sua tecnica in velocità senza doversi preoccupare troppo di avere chiudere la partita nell’ultimo terzo del campo; in un 3-5-2 molto più rigido, Stile italianoal secondo attaccante è invece richiesta la capacità di creare connessioni, di associarsi ai centrocampisti in area palla e poi agevolare il cambio di gioco verso l’esterno isolato sul lato opposto in situazioni dinamiche. Federico Chiesa non è, e non è mai stato, un calciatore associativo, un connettore che domina le varie fasi del gioco attraverso la tecnica pura, piuttosto un generatore automatico di opportunitàuno che, come dice Spalletti, ha “il calore che brucia” e che si esprime attraverso la brutalità delle sue accelerazioni, che ha bisogno del riferimento fisico della linea laterale per trovare la sua collocazione nello spazio e nel tempo.

Il punto, però, è proprio questo: Chiesa è rimasto sostanzialmente lo stesso calciatore immediato e diretto degli esordi, specialista di un calcio i cui principali protagonisti, quelli che decidono le partite, giocano su più dimensioni, ritrovandosi catapultato in l’improvviso all’interno di un contesto in cui la sua specificità risulta essere un limite più che un valore aggiunto. C’entrano anche i numerosi tentativi che, con alterne fortune, Massimiliano Allegri ha compiuto negli ultimi tre anni per provare a fare di Chiesa la sua seconda punta ideale senza essere premiato neanche in termini statistici – 18 gol totali tra il 2021 e il 2021. e 2024, cioè appena quattro in più rispetto ai 14 del 2020/21 che costituiscono comunque il suo picco in carriera – né in termini di rendimento: infatti, se c’è una cosa che abbiamo imparato in questi ultimi anni, è che Federico Chiesa sa sii semplicemente un’ala offensiva. E trovargli posto in un sistema monolitico, in cui gli interpreti si muovono su binari predefiniti come se fossero su binari, richiederebbe la ricerca di un contrappeso tattico che Spalletti non ha fisicamente il tempo di sviluppare. Soprattutto se il senso di urgenza e le contingenze del momento richiedono un atteggiamento più prudente e conservatore.

Federico Chiesa era inarrestabile e alla fine è questo il problema Era

Questo ci porta alla seconda domanda: come si fa a trovare un posto da titolare al miglior giocatore di una squadra che non può permettersi di sfruttarlo al meglio se non in partita? Se, come sembra, il 3-5-2 visto contro la Croazia è la nuova comfort zone in cui Spalletti ha deciso di rifugiarsi, la possibile soluzione potrebbe venire direttamente dal passato, dal modo in cui Chiesa è stato impiegato nella Fiorentina di Paulo Sousa, ovvero come esterno destro di fascia larga “bilanciato” da una controparte più bloccata sulla sinistra; in questo modo verrebbero salvaguardate sia la solidità teorica nel non possesso palla, sia la necessità di una seconda punta più adatta a fluttuare tra la seconda e la terza linea di pressione (Raspadori). Inoltre, l’isolamento di Chiesa nei confronti del diretto avversario potrebbe essere attuato più facilmente, magari sostituendo uno dei due mezzali con un passatore aggiuntivo (Fagioli) che possa far avanzare l’azione in verticale con maggiore frequenza.

La sfida con la Svizzera, squadra che eguaglia l’Italia quasi uomo a uomo, circostanza che dà ancora più valore all’esito dei singoli duelli, darà più di un’indicazione in questo senso. Tre anni fa Chiesa è diventato il miglior Chiesa possibile a partire dagli ottavi, con un gol all’Austria che lo ha messo al centro del villaggio e dell’Italia di Mancini; domani capiremo se e quanto potrà essere vero anche per l’Italia di Spalletti.

 
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