Il G7 pugliese ha mostrato il meglio dell’Italia – .

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Come già accaduto con il G20 presieduto da Mario Draghi a Roma nel 2021, anche il G7 presieduto da Giorgia Meloni e conclusosi recentemente in Puglia testimonia il ruolo e il peso dell’Italia nel mondo. E come, al contrario, la politica polemica riduce la politica internazionale del nostro Paese, che è un grande Paese (uno dei sette più importanti del pianeta: da qui il G7) a una rissa da parco giochi. Letteralmente.

Mentre il Presidente del Consiglio della Repubblica italiana riceveva i capi di Stato o di governo di Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna e Canada, mentre il capo dello Stato, Sergio Mattarella, li invitava a cena, mentre Papa Francesco interveniva per la prima volta a un vertice di questa importanza per discutere di intelligenza artificiale, alla Camera dei Deputati si consumava uno scontro fisico tra parlamentari – per così dire parlamentari – di idee opposte in nome del disegno di legge attualmente all’esame e tuttavia controverso sulle autonomie differenziate.

In questo quadretto casalingo c’è tutto il massimo e il minimo della politica italiana, capace al tempo stesso di strappare gli applausi delle figure più rappresentative dell’Occidente libero e, quasi nelle stesse ore, di trasformarsi in una corrida tra chi spara e chi picchia, più grande. Con ricorso persino allo sventolare delle bandiere nazionali, al canto dell’inno nazionale e all’invocazione dell’unità nazionale – cioè tre cose che appartengono a tutti i 60 milioni di cittadini -, come armi di protesta e all’uso di barricate da una parte contro l’altra nell’arena dell’Aula con vista.

Non c’è fotografia migliore di questa, che è la peggiore, per spiegare la differenza tra nazione e fazione, tra l’idea che Mario Draghi, Giorgia Meloni, Sergio Mattarella e perfino il Papa buono siano lì, in cima al mondo, a rappresentarci tutti e a cercare di servire l’interesse nazionale – e, nel caso di Francesco, universale – e le bastonate di Montecitorio, cioè la voglia di prevalere l’uno sull’altro a calci, spintoni, parolacce ed esercizio abusivo dell’italianità.

Intendiamoci, la politica non è una cena di gala, e il diritto di far vibrare le polemiche più aspre possibili è un dovere di chi, in Parlamento e fuori, è abituato ad esercitare lo spirito critico. Solo che alla Duma di Putin non li danno, perché non li dicono nemmeno, cioè non possono dirli.

Ma mentre i signori si battevano, il G7 a guida italiana apportava una svolta alla riaffermata difesa dell’Ucraina, stanziando 50 miliardi di dollari per la ricostruzione del Paese aggredito con un sistema di prestiti basato sulla riscossione degli interessi sui beni congelati in Occidente dal paese aggressore. L’invasore pagherà il prezzo della guerra che ha scatenato. Mentre deputati del centrodestra e del centrosinistra si accusavano a vicenda di provocare chi, e di chi sferrare il primo pugno nell’aula trasformata in saloon (il presidente della Camera è stato costretto a ricorrere alla moviola per distribuire le responsabilità e punizioni), il G7 a guida italiana portava a casa la straordinaria innovazione occidentale sull’Ucraina, il piano Mattei per l’Africa, una strategia condivisa sull’immigrazione, la politica energetica, la necessità di un accordo in Medio Oriente, la tutela dei diritti fondamentali e molti altri altre questioni degne di nota contenute nel documento finale del vertice. Un vertice che è stato saggiamente allargato a presidenti e organizzazioni di ogni continente, non a un club esclusivo dei potenti.

Al di là del lavoro diplomatico delle istituzioni, dalla Farnesina al Quirinale, Giorgia Meloni ha potuto far valere una circostanza soggettiva e oggettiva al tavolo dei Big 7: è stata l’unica leader tra i presenti ad aver vinto le recenti elezioni europee.

Tutti gli altri hanno preso una batosta (da Emmanuel Macron a Olaf Scholz, al giapponese Fumio Kishida) o rischiano di prenderla alle prossime elezioni, come il britannico Rishi Sunak, il canadese Justin Trudeau e l’americano Joe Biden.

Il Primo Ministro, che guida la destra in Italia e il gruppo conservatore in Europa, è riuscito ad affermare il programma italiano nonostante il fatto che quattro dei Big Seven fossero importanti esponenti progressisti o di centro-sinistra, e questo non è un paradosso.

Perché al G7 – come al precedente G20 di Mario Draghi – non contano affiliazioni e ideologie. Conta il buon nome del Paese che rappresenti. Conta la credibilità istituzionale, la solidità economica, il valore e l’incanto storico-culturale della Repubblica italiana.

Solo ai rissosi di Montecitorio e ai troppi guelfi e ghibellini che popolano la politica deve essere sfuggito ciò che il G7 ha certificato: che il mondo non solo ama la bellezza, ma sa anche riconoscere la grandezza dell’Italia.

Pubblicato sul quotidiano Alto Adige
www.federicoguiglia.com

 
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