VUOTO DEL SILENZIO – Antitesi umana

VUOTO DEL SILENZIO – Antitesi umana
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È particolarmente difficile per me parlarne Antitesi umana dei romani Vuoto di silenzio, per ragioni molteplici ed eterogenee. A prescindere dalla percezione del tempo che passa troppo velocemente e dai ricordi di me stessa ventenne con cui ho sufficientemente infestato i miei undici lettori feriali, mi riesce difficile parlare di questo album perché:

– non è un disco da riascoltare al sole, in un clima semi-estivo;

– non è un’opera da affrontare con leggerezza, distrattamente, perché, anche dopo vent’anni di ascolto, richiede sempre la massima attenzione e uno stato d’animo ricettivo anche a sensazioni estremamente negative. E in questo periodo è tutto ciò di cui non ho bisogno;

– Ho sempre difficoltà a parlare di opere che trovo fondamentalmente impeccabili in ogni aspetto, di opere che – nonostante non vi sia inspiegabilmente unanimità di opinioni – trovo semplicemente annichilinti nel loro contenuto e nella loro perfezione.

Ciò premesso, complice anche una notte agitata, di sonno e veglia che si alternavano in una danza soffocante con la mente intrappolata in stanze e sensazioni intense – vere e non – ho messo su il disco, perdendo il sonno e lasciandolo, come sempre (e ancora, e ancora) stanco, stanco e inaspettatamente riaddormentato, come quando sei troppo preso da qualcosa per pensare anche solo a dormire e tuttavia, all’improvviso, crolli.

Antitesi umana rimane il capolavoro che ricordassi e uno degli album italiani più rilevanti degli ultimi vent’anni, non solo in ambito metal. Perché, anche se non c’è dubbio che stiamo parlando di un album metal, il terzo album dei Void of Silence si svincola dal destino dei loro lavori precedenti, un genere che si presta a costituire le basi su cui poggiano le cupe costruzioni di Riccardo Conforti E Ivan Zara che – mai come in questa occasione – spaziano nella musica ambient, sinfonica e, nella costruzione dei brani più impegnativi, anche in certe strutture progressive (ovviamente estranee al genere musicale).

E sopra questa cattedrale buia che ci parla della paura e della solitudine della guerra, dell’intimo senso di abbandono che si può provare in alcuni momenti, si leva la voce di Alan Nemtheanga del Primordialeuno dei cantanti più espressivi ed enfatici che abbia mai ascoltato in campo estremo, che recita con intensità straziante alcuni dei testi più dolorosi che abbia mai letto tra i quali, per la prima volta, questa notte, sono riuscito a trovare anche un barlume di luce.

Un compito non facile, visto che parliamo di un album che si apre con i venti minuti della canzone che dà il titolo all’album, una nenia oscura introdotta dai messaggi in codice dei partigiani, scandita dai rintocchi metallici di quel macchina che ridurrà in polvere le tue ossa e che nella notte più buia, in un pieno flusso di coscienza nichilista che – incredibilmente, vista la distanza siderale tra le proposte – mi ha ricordato il spirale discendente di Trent Reznor, anche la speranza in qualcosa di superiore o salvifico è perduta:

Le tue preghiere vuote
Ti metti in imbarazzo
Come un drogato infetto
Stai cercando una soluzione.
Il tuo Dio è un ago
Il tuo Dio è un rasoio arrugginito
Il filtro nel tuo sangue
Il filtro nella tua vena.

Sensazioni che si ripresentano anche nel devastante Orizzonte grigio e nelle sue visioni di soffocante monotonia e di orizzonti grigi, o nelle sue composizioni successive – alternate a brevi momenti strumentali dal sapore romantico – e in particolare in Momenti bui e statici in cui lo stesso approccio dei brani precedenti si riflette su temi più personali (e universali allo stesso tempo) con risultati altrettanto devastanti.

E poi arriviamo alla fine CXVIIIfolk apocalittico in cui il centodiciottesimo canto del Fiori del Male di Baudelaire è recitato da Atrato del Abisso di Tronus: un pezzo molto intenso, annientante, musicalmente ancora più oscuro, tematicamente angosciante (la sofferenza di Cristo nei suoi ultimi istanti), ma che si chiude con un pensiero oscuro ma decisamente sublime nella sua non accettazione dei dogmi, di ciò che è già stato scritto, cristallizzato da un verso di indescrivibile potenza: “Quanto a me, me ne andrò senza voltarmi indietro, da un mondo in cui l’atto di sognare non può seguire”..

E in quel momento, in quel singolo attimo ho trovato un attimo di stasi, un attimo di serenità e di luce dove non ci sarebbe stato motivo di cercarlo e tanto meno di trovarlo. Nella bellezza pura e incontaminata che nasce anche in contesti che oggettivamente non lo sono e che è capace di creare momenti perfetti. O, almeno, per me è così.

E, con questo pensiero in mente, mi sono addormentato. (L’Azzeccagarbugli)

 
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