Kurt Cobain e il trentesimo anniversario della morte del giovane Holden del grunge – .

Il giorno in cui la musica morì. Per Don McLean, che ne canta torta americana, era il 3 febbraio 1959 quando Buddy Holly, Ritchie Valens e JD “the Big Bopper” Richardson morirono in un incidente aereo, ponendo fine ai tempi spensierati degli anni Cinquanta. Per Generation What Kurt Cobain, all’epoca leader dei Nirvana e punto di riferimento per folle di ragazze e ragazzi che provavano il suo stesso disorientamento, si sparò alla testa al 171 di Lake Washington Blvd, East Seattle. Quando venne ritrovato il suo corpo senza vita, tutto finì.

Anche se per Cobain la parola “fine” era arrivata molto prima. «Il fatto è che non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Non sarebbe giusto né per te né per me. Il peggior crimine a cui riesco a pensare è fingere e far credere alla gente che mi sto divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare ogni volta che salgo sul palco”, ha lasciato scritto in una lettera d’addio trovata accanto al suo corpo.

Kurt Cobain, Courteny Love e Francis Bean Cobain in un momento di Montage of Heck. Per gentile concessione di Universal

Profeta suo malgrado e santo del grunge. Niente potrebbe essere più lontano da ciò che sentiva di essere. Eppure, come quelli che prima di lui uscirono di scena troppo presto e innaturalmente – complice la fama mondiale – la sua eredità musicale si mescolò a una retorica banale, finendo per svuotare l’uomo a favore del simbolo.

A trent’anni dalla sua morte, però, si può dire che quella dei Nirvana fu l’ultima grande rivoluzione musicale capace di rispondere ad uno specifico clima sociale, politico e culturale. Un movimento che in quel ragazzo dagli occhi azzurri aveva trovato un leader da coronare. Non è un caso che Bill Clinton, allora presidente degli Stati Uniti, accarezzò l’idea di parlare alla nazione e si temeva un’ondata di atti emulativi. Solo che non voleva portare il peso di quella corona – e non è un caso che uno dei suoi punti di riferimento musicali fosse John Lennon, un altro che preferì ritirarsi per cinque anni e vivere la sua vita lontano da investiture collettive non richieste. Anche se Cobain aveva cercato, fin da adolescente, l’accettazione e la riproduzione del calore di una famiglia.

Cobain: Montaggio dell’infernoil documentario definitivo

Brett Morgen lo raccontò nel 2015 Cobain: Montaggio dell’inferno, il documentario definitivo sul leader dei Nirvana (disponibile per il noleggio su Apple TV+ e YouTube). Una produzione durata sette anni, coprodotta dalla figlia Frances Bean Cobain e realizzata con il benestare di Courtney Love, la vedova più odiata del rock, come Yoko Ono. Morgen, che ha avuto accesso illimitato all’archivio personale e familiare del musicista, ha realizzato un’opera che ha poco a che fare con la band di Seattle, la popolarità e il fascino di un rocker maledetto e molto più a che fare con il bambino, il ragazzo e l’uomo che ha trascorso la sua vita alle prese con gli abissi della sua infanzia e adolescenza.

Un dettaglio animato dai diari di Kurt Cobain. Per gentile concessione di Universal

E lo ha fatto utilizzando la propria voce, quella registrata in una serie di registrazioni casalinghe della fine degli anni Ottanta in cui Kurt Cobain racconta la sua storia. Quella di un ragazzo di Aberdeen, cittadina dello Stato di Washington – recita il cartello stradale al suo ingresso Vieni come sei, come una delle canzoni più famose dei Nirvana – che alle soglie dell’adolescenza vede la sua famiglia sgretolarsi davanti ai suoi occhi. I suoi genitori divorziano. E quel senso di calore e protezione scomparso sarà la sensazione che cercherà ovunque. Nella musica, nelle relazioni, nella droga.

Brett Morgen prende ore di filmati personali, diari, brani inediti e mette in ordine – grazie alle parole della sua famiglia, di Kris Novoselic e Courtney Love – i tasselli per cercare di capire chi fosse davvero quel ragazzino con la maglietta a righe, le Converse. e uno sguardo perso. Sempre senza cercare di mitizzarlo. Ma fa di più. Da un lato i disegni e le parole scritte nei suoi diari prendono vita sullo schermo, dall’altro le registrazioni che danno il titolo al documentario sono accompagnate dalle animazioni realizzate da Stefan Nadelman e Hisko Hulsing.

Kurt Cobain nel ruolo di Holden Caulfield

Ed è così che ci ritroviamo di fronte ad una versione punk di Holden Caulfield, il protagonista del capolavoro di JD Salinger. Come Holden, anche Kurt ha quella sfacciata onestà nel raccontarsi, nel sentire “troppo”, nel disgusto per l’ipocrisia, nel comprendere il mondo così profondamente da provare dolore. E come Holden è inquieto e ha un disperato bisogno di essere amato, compreso, ascoltato.

Una versione animata di Kurt Cobain in Montage of Heck. Per gentile concessione di Universal

“Non leggere il mio diario quando non sono lì. Ok, vado a lavorare adesso. Quando ti svegli questa mattina, per favore leggi il mio diario. Guarda tra le mie cose e scopri come sono.” Cobain: Montaggio dell’inferno ci fa capire un po’ di più com’era quel ragazzo di Aberdeen, cosa pensava e sentiva, messo su un piedistallo per una generazione dalla quale decise di scendere nel modo più assoluto e doloroso possibile. “È meglio bruciare velocemente che spegnersi lentamente” scriveva prima di congedarsi dal mondo. Ma certe fiamme continuano ad ardere. E Kurt Cobain, proprio come Holden Caulfield, è diventato immortale.

 
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