il tema più caldo della fiera divide i produttori – .

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Torniamo da Verona con un’idea molto chiara: l’era della feroce opposizione tra vino naturale E convenzionale. E ne è nata una nuova: la scissione tra vino tradizionale e dealcolizzato. Mai come in questa edizione di Vinitaly c’era la chiara percezione che il nemico fosse esterno al mondo di vino, una minaccia i cui contorni non sono ancora chiari. La diversa consapevolezza sualcol a livello globale? Le normative europee che sembrano equiparare un bicchiere di rosso a un pacchetto di sigarette? Il calo dei consumi? L’enorme difficoltà di entrare in contatto con le nuove generazioni?

Come anticipato, sul tavolo di Verona c’erano una manciata di temi che finivano per compattare il sistema, lasciando da parte una serie di contrasti, come quello sempre più fugace tra piccoli viticoltori e grandi aziende. C’era una forte voglia di fare gruppo, sistema; la divisione più chiara è sulla risposta al tema di vino senza alcool. Il ministro è stato il primo a lanciare la palla Francesco Lollobrigidain un’intervista con Gambero rosso: «Sia chiaro, rispetteremo il Normative europee che ci impongono di aprirci a questo prodotto, ma da parte mia non sarà così nessun incentivo alla sua promozione”.

Largo ai dealcolisti (forse)

C’è chi segue la linea ministeriale, e si scaglia contro i deal-alcolisti, anche con veemenza, e chi invece fiuta il profumo dell’opportunità. Al momento in Italia, ricordiamo, la pratica dell’ è vietata la dealcolazione. Chi vuole farlo deve andare all’estero. «Dobbiamo aprire le frontiere della nostra offerta, con portafogli non solo verticalmente in diverse fasce di prezzo, ma orizzontalmente con altri prodotti», spiega Marzia Varvaglione, che qualche anno fa aveva denominato la gamma di vini 12.5: «I risultati sono stati sorprendenti, non solo abbiamo conquistato una nicchia di mercato ma ci siamo avvicinati anche ad un consumatore che aveva paura di avvicinarsi al vino a causa della sua alta gradazione alcolica. Credo che i vini analcolici possano aiutare a promuovere il consumo consapevole e moderato, ampliando le opportunità di consumo”, conclude.

La posizione è chiara, nella direzione opposta Giovanna Prandini, titolare dell’azienda vinicola Perla del Garda: «Chiamarlo vino è una mossa intelligente, preoccupa questa appropriazione di termini che definiscono un prodotto di grande tradizione. È già successo per il latte o alimenti simili carne dove gli hamburger vengono venduti anche quando non c’è nulla a che fare con la carne”. E avverte: «Non diamo per scontata la nostra traduzione, perché alle multinazionali basta poco per creare in laboratorio prodotti perfetti dal punto di vista Nutriscore, ma che non rispecchiano nulla di quello che facciamo e della nostra storia. È un’altra manipolazione, che senso ha inserirci in un mercato che non ripagherà mai il nostro valore”, chiede Giovanna.

Fuori dall’italia

«Produciamo un paio di scarpe in Spagna da 5 anni spumanti dealcolati. In fiera abbiamo notato molta attenzione da parte dei consumatori, le persone sono curiose e vengono per assaggiare e scoprire. Mentre gli operatori sono ancora reticenti. Bisogna rimettersi in corsa perché i monovarietali dealcolizzati sono presenti sul mercato da anni in tutto il mondo”, dichiara Daniele Simoni, amministratore delegato di Schenk Italian Wineries. La provocazione è stata lanciata da Alessio Del Savio, direttore tecnico di Mionetto: «Perché non avere un Prosecco Doc dealcolizzato? Dobbiamo parlare con le denominazioni subito dopo aver risolto le questioni legali. E non svendiamo questo prodotto, restiamo uniti”.

La strada sembra ancora lunga, ma la sensazione è che il sentiero sia in qualche modo tracciato. Da modificare anche ilimpronta ecologica di queste bevande che spesso nel processo di produzione viaggiano per il mondo e vengono poi a loro volta esportate in paesi lontani. E la sostenibilità? «Sapete quanta acqua occorre per abbassare la gradazione alcolica di un vino, parliamo di tonnellate. Negli anni Novanta dovevamo aggiungere per dare struttura, ora facciamo esattamente il contrario”, nota il giornalista Nereo Pederzolli.

Martino Foradori della tenuta Hofstätter sposta l’attenzione su questione di qualità: «Spero che anche in Italia si rompa questo ghiaccio attorno ai dealcolisti. Li produco da viticoltori tedeschi con passaporto italiano. Germania e Spagna ci hanno superato, i residui zuccherini sono importanti ma la tecnologia sta facendo passi da gigante. Se la qualità è già questa, ne vedremo delle belle in futuro. Per me il Riesling è la varietà ideale per questa tipologia, ma ho assaggiato anche tanti altri vini interessanti”.

Girando per i padiglioni ci si accorge che sono tanti i grandi gruppi vitivinicoli che stanno investendo nella ricerca per arrivare ad un prodotto a zero alcol, chi li ha presentati in pompa magna e chi in silenzio. Il primo obiettivo sarebbe già quello di centralizzare la definizione: «Per me zero alcol non è un vino, è una bevanda a base di vino. Ne parliamo se la dealcolazione è parziale, ma in ogni caso la filiera agricola dovrebbe essere sempre certificata”, commenta Franco Piona dell’azienda Brigaldara.

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