Un minyan sull’Everest. Charly Taieb racconta la spedizione con una dedica per la liberazione degli ostaggi – .

Un minyan, un gruppo di dieci uomini ebrei adulti, ha scalato l’Everest per il secondo anno consecutivo con un Sefer Torah; Charly Taieb, carismatico e brillante comunicatore, uno degli artefici della spedizione, è tornato a Parigi pochi giorni fa e ha accettato l’invito di Shalom a raccontare il profondo significato spirituale di una settimana indimenticabile.

Come è nata l’idea?

Quando ho compiuto 60 anni ho deciso di regalarmi un’esperienza fuori dal comune. Mi sono allenato per molti mesi e ho scalato il Kilimangiaro con altri tre amici. Quando sono tornato ho pensato che mi sarebbe piaciuto condividere una sfida estrema con un minyan. Così è nato il minyan completo, non un uomo di più, non un uomo di riserva, per far sì che ognuno di noi sentisse su di sé il peso del progetto, fosse pienamente consapevole della sua unicità e della sua necessità di poter recitare il tefillot e per leggere la Torah.

Come ti sei preparato?

Nessuno di noi è particolarmente sportivo, siamo di età diverse, con allenamenti eterogenei, ma fin da subito ciò che ci ha unito è stata la voglia di raggiungere un obiettivo comune.

Fede, resistenza e una dedizione speciale?

Partiamo dalla dedica: nei mesi successivi al 7 ottobre abbiamo deciso di dedicare la spedizione ai nostri fratelli israeliani vittime dei massacri di Hamas. Speravamo con tutto il cuore che gli ostaggi venissero rilasciati prima della nostra partenza. Con il passare dei giorni abbiamo avuto la certezza che purtroppo ciò non sarebbe accaduto. Abbiamo portato con noi le fotografie dei due fratelli Bibas e degli altri ostaggi per chiederne l’immediata liberazione, dal tetto del mondo abbiamo pregato per la liberazione immediata degli uomini, donne e bambini prigionieri.
Recitavamo sempre il tefillot con il minyan finché alcuni di noi non ebbero più la resistenza fisica per proseguire e dovettero fermarsi a 5500 metri di altitudine nonostante la loro volontà di ferro.

Come hai trascorso lo Shabbat?

Durante le tappe che ci hanno portato al campo base abbiamo conosciuto tanti israeliani, venerdì li abbiamo invitati a condividere la cena con loro, eravamo in 35, l’atmosfera era meravigliosa, i racconti personali di chi aveva amici o parenti in prigionia ispiravano ci hanno accompagnato nei giorni successivi. Uno dei nostri ospiti ci ha fatto una profonda impressione: era molto religioso ma si era allontanato dall’Ortodossia, stava camminando tra India e Nepal, la settimana prima si era sentito male, in quel momento aveva deciso che voleva ritornare in rispetto all’osservanza delle mitzvot, aveva chiesto ad Hashem di dargli ‘un segno’. Non entrerò nei dettagli della storia ma sono certo che quello Shabbat fu per lui il segno. Abbiamo riflettuto sul legame profondo che unisce il popolo ebraico alla montagna: da Abramo, con la sua ascesa al monte Morià, a Mosè, con la sua ascesa al monte Sinai, al profeta Elia.

E Yom HaAtzmaut?

Nel nostro viaggio abbiamo portato la bandiera israeliana sia l’anno scorso che quest’anno, l’abbiamo mostrata con orgoglio prima di interrompere la salita a causa del maltempo. Quest’anno, come per tutti noi ebrei, è stato difficile festeggiare. Abbiamo osservato un minuto di silenzio per Yom HaZikharon. Israele è con noi in ogni momento della nostra impresa, non ci abbandonerà mai.

Piani per il futuro?

Ritornare per scalare l’Everest, adempiendo ai mitzvot che ci rendono uomini migliori e celebrando il ritorno a casa di ciascuno degli ostaggi.

Foto: Instagram @minyan.everest

 
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