Adriano Aprà, la passione per il cinema come scommessa oltre il tempo – .

Adriano Aprà, la passione per il cinema come scommessa oltre il tempo – .
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«Era l’ultima sequenza, era l’ultimo spettacolo e sullo schermo calò il sipario» (Eddy Mitchell, La seduta spiritica più recente). La citazione è quella che apre il saggio di Louis Skorecki – pubblicato su «Cabiria», trimestrale diretto da Marco Vanelli – dal titolo: Contro la nuova cinefilia. Adriano Aprà ha curato la traduzione, la prima fuori dalla Francia – accompagnandola con un magnifico testo introduttivo, I sette peccati capitali della cinefilia…e come assolverli, che nel tracciare una contestualizzazione storica, mettendo in parallelo la propria esperienza di studioso, critico, programmatore, cinefilo prima di tutto e molto di più con quella del critico francese, la riporta alla contemporaneità. E quel testo scritto tra il 1977 e il 1978 diventa così nella riflessione di Aprà un mezzo (e una lente) per interrogarsi sul senso della cinefilia, della critica oggi – e attraverso di essi quello del cinema, e di una certa idea di mondo. «Che fine ha fatto la cinefilia: l’amore per il cinema, il cinema fatto con e per amore? » si chiede a un certo punto nelle ultime righe, rammaricando una «colonizzazione di ritorno» tra letture sempre più in chiave «di studio», una critica diventata prevalentemente giornalistica, i festival trasformati in luna park da red carpet, e soprattutto la rimozione forzata dell’io dalla scrittura in favore di una formula più impersonale. Lui, invece, ha sempre usato l’ego.

Una scena da “Olimpia degli Amici”, regia di Adriano Aprà

Ma per Adriano Aprà – morto ieri a Roma all’età di 83 anni – quel sé era la soggettività del 1968, un sé politico e quindi collettivo, nel senso di fare, inventare, agire, una pratica culturale che, a partire dal cinema, ricercava cambiare i paradigmi della realtà. Perché aveva intrecciato la sua presenza nel mondo, nella società, nel suo tempo con gli studi e la sua visione cinefila; il cinema poteva essere uno strumento di turbamento, di disgregazione nelle istituzioni, nelle accademie, nell’industria, nelle storiografie, nella lettura dei singoli autori, nella realizzazione dei film e nella loro programmazione – che allora era un insieme fluido e dialogante. In quel costante lavoro di sistematizzazione o ri-sistematizzazione critica all’interno del quale Rossellini e la Nouvelle Vague, Howard Hawks (è dedicato a Linea rossa 7000 sua recensione sul primo numero di «Cinema e Film», e fu sua – e di Patrizia Pistagnesi – la curatela nel 1981 della grande retrospettiva veneziana dedicata a Hawks) o del cinema americano «classico», Straub Huillet era insieme a Blasetti a Lattuada, Andy Warhol (bellissimo il libro curato insieme ad Enzo Ungari, Il cinema di Andy Warhol, Arcana editrice, 1971) in Olmi (Marsilio). C’è qualcosa nello sguardo di Aprà che riesce sempre ad andare oltre, che rispetto a superfici evidenti o più visibili, intuisce e cattura prospettive nuove e sorprendenti. Il suo discorso era (è) una scommessa calma – come i gesti con cui accompagnava le sue parole, aspirando dalla sigaretta, con un sorriso dietro l’aria severa che mascherava la dolcezza della sua ironia.

ADRIANO per chi lo conosceva raccontava un mondo: inconfondibile con le sue maglie arancioni e il loden cammello, la precisione di ogni giudizio anche quello con cui non si condivideva ma che dal suo punto di vista assumeva coerenza e imprevedibilità. La ritualità dei suoi gesti, la sua memoria storica espressa nel presente, quelle “memorie (di Adriano)” che potrebbero essere ascoltate all’infinito.

Adriano Aprà

Si è creata una netta separazione tra i film presenti nei circuiti “normali” e quelli non riconosciuti dall’industria. Cerco di compensare questa mancanza, e una saggezza mai arrogante, con l’entusiasmo della passione che lo ha portato ad accogliere nuove sfide, a confrontarsi con le generazioni più giovani, e soprattutto ad appassionarsi ancora e ancora come dimostra la sua avventura in Fuori norma – Il percorso neo-sperimentale del cinema italiano che aveva raccolto registi e pubblico attorno a un progetto più che a singoli film, attorno a un programma (si può dire che sia stato il modello insuperato di ogni programmatore) che mette al centro la fantasia per sorprenderlo contro abitudini (di visione) e giudizi affrettati, e contro una sola idea di industria o di uso. Lo speciale equilibrio tra conoscenza storica, riflessione teorica, visione critica si è sempre intrecciato con la sua esperienza; caratteristica che lo aveva reso compagno di avventure e interlocutore illuminante per i registi di oggi e di ieri. Non c’erano separazioni, non c’erano barriere in questo: scrivere è programmare, fare film – ricordiamo: Olimpia agli amici (1970); Roma. Una città al cinema (1978); Rossellini visto da Rossellini (1992); i video Circo Fellini (2010), All’ombra del conformista (2011) e La verità della finzione (2012); Rosso cenere (2013), diretto con Augusto Contento; la sceneggiatura di La maschera (1988) di Fiorella Infascelli.

«Linea Rossa 7000» di H. Hawks

IN UN delle ultime mail che ci siamo scritti (per una volta userò quell’io che per me, nonostante i suoi preziosi insegnamenti, continua ad essere impossibile) parlando dei David nei suoi voti c’erano alcuni titoli che non ho capito eppure è riuscito a rivelare qualcosa di inaspettato, che era di lato, o in un ideale percorso di connessioni che oggi, in tempi di contenuti e sceneggiature, è ancora più prezioso. Perché aveva entusiasmo, non l’aveva mai perso, e curiosità, era disponibile ad ascoltare nel suo desiderio di disegnare la sua cartografia di immagini in movimento.

Adriano Aprà è nato a Roma nel 1940 e si è laureato in Giurisprudenza. Parlò spesso di un concorso per il “posto fisso” al quale non si era mai candidato, scegliendo un’altra strada, certamente impervia nell’Italia del boom, in cui i giovani della sua età indossavano giacca e cravatta e si immaginavano con famiglie e sistemato. Negli anni Sessanta cominciò a scrivere di cinema su «Filmcritica», la rivista fondata da Edoardo Bruno dalla quale, come dirà, «sono uscito sbattendo la porta». Intanto era sbarcato a Parigi, punto di riferimento per i cinefili dell’epoca. La Francia e la critica francese, Bazin e i suoi Cos’è il cinema? – di cui curerà la traduzione italiana – sono quindi il suo riferimento, come dicono anche i suoi primi scritti, due saggi sui «Cahiers du Cinéma» – Il gruppo Cahiers du Cinema 1951-1960 – e poi sul cinema americano, con il quale vuole affermare un ruolo di passeur tra le due culture ma soprattutto un approccio estetico, critico, politico che prende le distanze da quello ideologico di Aristarco e del suo «Nuovo Cinema», allora riferimento per il pensiero sul cinema in Italia, muovendo invece verso il terreno che sarà poi della Nouvelle Vague.

Nel 1966 fonda insieme ad altri, tra cui Enzo Ungari, «Cinema&Film», mentre grazie alla Mostra del Nuovo cinema di Pesaro scopre il cinema underground americano. Era il 1967, nello stesso periodo, che è anche quello della rivoluzione del 1968, inizia a programmare (sempre con Ungari) al Filmstudio di Roma, in via Orti d’Alibert 70, per passare alla regia (Olimpia ai amici, 1970). Il Filmstudio è lo strumento per condividere con lo spettatore ciò di cui si parlava nelle pagine della rivista – che nel frattempo si è conclusa. È uno spazio di riferimento internazionale per registi e altri critici e studiosi a Parigi, Rotterdam e New York.

SEMPRE in quegli anni scoprì Straub-Huillet in Italia, e nel loro fu attore Ottone, il primo film che girarono a Roma, da una tragedia di Corneille. Quando la coppia di direttori arriva nella capitale va a vivere con lui, nel suo appartamento di “70 metri quadrati” in via del Governo Vecchio pieno dei loro libri. Lo ricordò scrivendo su queste pagine di Straub, quando morì, e questo, così come i suoi racconti su Godard – “la mia stella polare” – che privilegiarono l’esperienza personale rispetto al cinema nel ricordarlo, spiegano bene quel sé di cui si diceva, quella prima persona plurale che racconta il sentimento di un’epoca, una prossimità, un essere vicini nel condividere con il cinema e le pellicole questo amore per la ricerca, per l’insegnamento rosselliniano. Gli stessi che appunto accompagnano la programmazione dei festival da lui diretti, Salso Film & TV Festival (1977-1989) e Mostra del Nuovo cinema di Pesaro (1990-1998). E poi la Cineteca Nazionale (1998-2002), la didattica, fino a Fuori norma.
In una conversazione che abbiamo avuto per la presentazione di Ottone alla Berlinale per i 50 anni del Forum ha detto: «Il critico che scrive di film non destinati al cinema, salvo pochissime eccezioni, non esiste più, ormai vale il principio che se esce un film, altrimenti non se ne farà nulla parlato di. Per la prima volta si è creata una separazione netta tra i film inseriti nei circuiti ‘normali’ e quelli esterni, non riconosciuti dall’industria e dalla critica. Nel mio lavoro di passante cerco di compensare questa mancanza”.

 
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