Una discesa nel misterioso vortice: Stopmotion – .

C’è stato un tempo in cui noi portatori di occhiali eravamo costretti a meravigliarci della genialità dei cortometraggi di Jan Švankmajer. “Švankmajer! Genio!” era il nostro mantra. Poi i nostri, ahimè, hanno iniziato a girare lungometraggi e i nostri bicchieri sono esplosi in un CHEPPALLE collettivo. Poi c’erano i quay jolly dei Quay Brothers, straordinari anche sul percorso breve, meno su quello lungo. Poi è arrivato Lee Hardcastle, che si spinge meno e ha sempre avuto la decenza di limitarsi a cortometraggi, uno più bello dell’altro. Guarda che sono gentile, ti linko roba bellissima, legale e gratuita. Insomma, nonostante lo stop motion sia una tecnica molto interessante e coraggiosa (e più passa il tempo, più diventa “insensata”: in un’era di AI che sta rendendo obsoleto anche il buon vecchio green screen, animando figure modellate a mano in un set costruito a mano fanno sembrare gli amanti del vinile degli audaci futuristi), il problema sembra sempre essere quello di farlo funzionare in un film con una narrazione completa.

Entra Phil Tippett con l’incredibile Mad God che però è un viaggio da accettare così com’è. Entra, soprattutto, questo pazzo chiamato Robert Morgan che mette insieme un cortometraggio più malato e perverso dell’altro (compreso un episodio di The ABCs of Death 2) e che potete facilmente guardare sul suo canale YouTube. Dai, guardali e poi dimmi se ho ragione: Morgan è un pazzo assoluto. Finalmente, dopo una carriera onorata caratterizzata da mostriciattoli fatti con le unghie dei piedi, occhi pendenti, una visione molto disturbata dell’infanzia, Morgan esordisce con questo lungometraggio che si chiama semplicemente “Stopmotion” perché, rullo di tamburi, è un METAFILM! Aiuto. Considerando il curriculum dei suoi colleghi, non c’era molto da sperare. La prima parte, oggettivamente, soffre un po’ il continuo attacco di metafore volanti, roba così rumorosa da far addirittura temere che questi personaggi abbiano la profondità delle statuine di cera; il tutto aggravato dalla rarefazione dei dialoghi, che porta il film verso atmosfere pericolosamente à la Possum (il che non è un complimento). E invece…

Il piccolo mostro delle unghie

E invece la seconda parte, per chi ha un attimo di pazienza, diventa sempre più orribile, perversa, divertente e cruenta e non stacca mai il piede dall’acceleratore fino a uno scatto finale di rara perfezione, tra citazioni di Peeping Tom, Dead of La notte, le sequenze oniriche e le esperienze che sembrano sogni, i grandangoli, le distorsioni visive e sonore. E a tenere la trama sulle spalle è la coraggiosissima Aisling Franciosi, che abbiamo già ammirato in quell’altra passeggiatina che è stata L’Usignolo e che rivedremo presto nel remake di Speak No Evil; Franciosi si fida ciecamente della regista e si immerge nel progetto con grande dedizione (ha imparato anche ad animare le figurine, come spiega Morgan in questa intervista).

Guardalo in azione qui

La trama, appunto: la giovane e sottomessa Ella vive con la madre tirannica, un’intrattenitrice che sta perdendo l’uso delle mani e sta quindi diventando sempre più sadica e intrattabile. La sta aiutando a completare il suo ultimo film, ma non ha la forza di ribellarsi e cercare la propria voce artistica. Per una serie di motivi, Ella coglie l’occasione di trasferirsi in uno studio per dedicarsi al suo film, alle sue visioni e alle sue paure; il suo fidanzato Tom la sostiene e la sopporta, la sorella afferma di volerla aiutare a trovare un lavoro “vero” nel mondo dell’animazione commerciale. Ma Ella li snobba, preferendo la compagnia di una misteriosa ragazzina stronza che altri non è che la sua Id. Insomma, Ella impazzisce per il suo film come sua madre prima di lei, vive (e muore) per la sua arte, che la assorbe interamente, la fagocita fino a trasformarla in uno dei suoi personaggi. Ormai il piano della realtà e quello della finzione si sono già invertiti più volte ed è inutile tentare di risalire da un vortice in cui carne morta, carne viva e cera mortuaria hanno la stessa consistenza tattile e lo stesso valore etico. La sequenza della festa è un tripudio di valli misteriose che si aprono vertiginosamente davanti ai nostri occhi.

Metafore malate

Il film gioca anche con l’ambiguità morale tra esseri umani vivi ma morti dentro, alienati dal lavoro, dalla droga, dalla vita normale. Tom è un ragazzo maturo e coscienzioso che trova un equilibrio tra lavoro e musica, ma Ella, ormai persa nel suo vortice di paranoia e narcisismo, lo prende in giro dicendogli “Non fai musica: ti vesti bene e vai a lavorare” . Il mondo dell’arte commerciale, illustra chiaramente Morgan, fa davvero schifo; tuttavia il discorso è ambivalente: in fondo Ella vive una vita di merda a casa di sua madre, probabilmente sopravvive con i risparmi e rifiuta di aprirsi al concetto di futuro.

BU!

Morgan crea un film, e un film nel film, in cui i personaggi hanno qualcosa da dire e che ti coinvolge emotivamente. Sarebbe stato meglio approfondire il rapporto madre-figlia, ma i brevi spezzoni mostrano una madre sadica frustrata dal fatto di perdere l’uso dei suoi strumenti (le mani) e una figlia sottomessa e plagiata che non riesce a gestire nessuno dei due la presenza o soprattutto l’assenza della madre. Come dice sua madre, Ella non ha controllo su nulla. Repressa a un livello più profondo di quello sociale, incapace di leggere se stessa e gli altri, fondamentalmente psicopatica, a Ella non resta altro che cancellare se stessa e gli altri come tante bambole di cera schiacciate tra le sue dita.

Probabilità del DVD:

«Il perturbante è il ritorno del rimosso»
Sigmund Freud, i400pupazzetti.com

>> IMDB | trailer

 
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