Noi ragazzi degli anni 70 abbiamo inventato (quasi) tutto – .

Lasciatemelo dire: noi che siamo stati ragazzi degli anni ’70 abbiamo inventato quasi tutto, soprattutto”essere giovane”, che è diventata non solo una categoria demografica, ma esistenziale, psicologica e comportamentale. È vero che avevamo i nostri fratelli maggiori come battistrada ’68che certamente avevano, almeno per noi, una medaglia sul petto: li ammiravamo moltissimo, erano i nostri eroi. Ma i ragazzi del ’68 erano ancora, ai nostri occhi, piuttosto seri e compassati anche quando costruivano barricate, occupavano facoltà, leggevano comunicati stampa, armeggiavano con il ciclostile e leggevano Veramente Marx e Marcuse.

Prima di arrivare al parka e agli occhiali stile Cavour avevano attraversato una lunga fase di giacca, cravatta e polo, e le ragazze si presentavano ai raduni ancora con la gonna, le scarpette e, forse, i capelli composti e freschi di shampoo. Noi invece siamo rimasti subito più confusicolorato, alternative, a partire dall’apparenza. Abbiamo chiesto pace, giustizia, amore e un lavoro che ci permettesse di volare, di inventare, di abbracciare, di cambiare la societàe speravamo di realizzare tutto questo in modo colorato, leggero e piuttosto sfumato.

Ci siamo vestiti come gli hippy americanianzi spesso come i nativi americani, frange, piume, collane ovunque, zoccoli ai piedi, gonne etniche, stivali logori e slacciati. Non ci siamo pettinati. I maschi non si radevano e, se non ne avevano una, si prendevano amorevolmente cura di quei quattro peli che spuntavano loro sul mento.

Abbiamo inventato capi di abbigliamento molto longevi, come i jeans sbiancati con la candeggina e poi stracciati ad arte, con una tasca di un colore e un’altra di un altro, recuperati dal cesto di scampoli di stoffa che ogni vera nonna, in quegli anni, possedeva. Abbiamo anche “pulito” l’ombelicoallacciando le camicette in vita e lasciando scoperta metà della pancia.

Abbiamo reso famosa la Vera Tolfa, la Stivali Vaquerosgli spiriti selvaggi, abbiamo reso normale indossare scarpe da ginnastica a tutte le ore (ma gli adulti le chiamavano ancora “scarpe da tennis”), e abbiamo anche inventato cosmetici biologico. Curavamo l’acne con albume d’uovo e argilla, ma non quella comprata in erboristeria (praticamente non ce n’erano), bensì quella scavata nel giardino; e abbiamo realizzato il nostro lucidalabbra con olio di semi, melone, fragole, ciliegieci siamo profumati con l’essenza di muschio o patchouli.

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Non tanto perché pensavamo che nei cosmetici industriali ci fossero conservanti o elementi chimici potenzialmente dannosi (e chi lo pensava? Siamo cresciuti tra caramelle, lecca-lecca e ghiaccioli multicolori, su cui nessuno indagava), piuttosto andare contro il sistema. Che poi, se qualcuno ce lo avesse chiesto esplicitamente, “Ma cosa intendi esattamente per Sistema?” non è che avremmo avuto la risposta pronta. Il sistema era un nemico. Eravamo dentro e non eravamo insieme, dato che lo criticavamo. Abbiamo criticato il alta moda– ci ha quasi inorridito –, reggiseni: oggetti da donna – le belle ragazze nelle pubblicità delle automobili – lo sfruttamento dell’oggetto donna – e, più ci vestivamo come stracci, più ci piacevamo e ci piacevamo.

Eravamo nel pieno degli Anni di Piombo, ma fino a un certo punto ne eravamo consapevoli. C’era una specie di dipendenza, sembra assurdo dirlo, ma era così; quelli erano i tempi, quello era il mondo.

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Un adulto non potrebbe capirci; lo davamo per scontato, è stato così. I nostri genitori erano cresciuti in sogno americanonoi americani amavamo solo il beatnik e Linus e Charlie Brown.

Vago del Nomadi era il nostro inno, ma anche La locomotiva di Guccini non scherzava.

Durante le occupazioni, a scuola o all’università, c’era chi cantava, chi suonavachi attaccava ai muri ritagli di giornale che parlavano della lotta studentesca, chi vendeva libri alternativi dell’editore Savelli. Mentre camminavamo ci siamo imbattuti in gruppi seduti per terra a semicerchio, che hanno discusso o preso coscienza di sé. Si stavano svolgendo molte altre attività. Cineclub. Le storie autobiografiche delle femministe. Gruppi di studio sul sesso o sulla droga. Gruppi che hanno scritto e letto poesie. Furono dipinti dei murales, con i lettori di cassette a tutto volume. Senza adulti intorno, liberi di scrivere poesie, parlare, ridere, vibrare, vibrare, vibrare!, anche perché, se una cosa non ha funzionato per te vibrareaveva fallito.

Il ruolo della musica nelle nostre vite è stato incalcolabile; la gente del ’68 lo sognava: ai loro tempi c’erano ancora le band melodiche, cantavano andiamo a mietere il grano, scrivevano ti amo sulla sabbia, esistevano ancora le discoteche: tutto questo era stato quasi completamente spazzato via dalla nostra orizzonte.

In breve, rivoluzionario, sì, ma diverso, unico.

Abbiamo inventato anche i social media. I nostri social erano il muro e il gruppo, che era una sorta di aggregazione spontanea, o semi, alla quale non era necessario aderire; ti sei semplicemente ritrovato al solito posto, più o meno alla stessa ora. Anche il telefono era un social network, fisso, scanzonato, grigio, lento e pesantenei pressi del quale ci siamo fermati per ore. Le nostre lunghissime telefonate erano come chatperché magari da una parte eravamo in tre a turno al ricevitore, ridendo e spingendo, e dall’altra anche. Molte delle nostre famiglie avevano appartamenti bifamiliari, per risparmiare denaro; allora il risparmio era un valore, e ai bambini venivano regalati salvadanai nei quali ovviamente si cercava di scassinare, in caso di necessità, infilando un coltello. I genitori degli adolescenti, proprio a causa del duplex, per fortuna, ma peggio ancora se lo trovavi sempre occupato, ricevevano continui richiami e rimproveri da parte dell’altro proprietario. Nel nostro caso il comproprietario era un vicinoche spesso si avvicinava a noi per protestare e lamentarsi: “Che male ho fatto, a ritrovarmi con tre liceali?”, e che, inoltre, ci guardava, se capitava, disgustato dalla montagna di capelli tinti di rosso con l’henné che avevo, dalla gonna di seta indiana di mia sorella che spazzava il pavimento, e dalla testa afro (ma bionda) di mio fratello, totalmente nature.

I pizzini fungevano anche da social network, attaccati con nastro adesivo a un albero o a un palo della luceper i ritardatari del gruppo

Ci vediamo alle sette davanti al monumento ai caduti

E le scritte sui muri non con sprayma piuttosto con la pittura, la pittura semplice e buona, e i tazebao con i pennarelli sulle porte delle scuole

Ragazzi, tutti in Piazza San Francesco domani alle 10!

Il cancello cosparso di note del parco pubblico fungeva anche da rete socialeun luogo strategico perché pieno di coppie che si baciavano appassionatamente (i nostri genitori non ci davano case, quindi dovevamo arrangiarci), incuranti, avrebbe detto Catullo, dei mormorii dei “vecchi severi”.

IL 70con il la loro musica, i loro miti e i loro rituali sono al centro del mio nuovo romanzo, L’ultima estate nel villaggioambientato nel 1975 a un immaginario paesino di montagna molisanoil Forte delle Orchidee.

Al Forte delle Orchidee la modernità è arrivata, ma il conflitto tra vecchio e nuovo è evidente. Le ragazze fumano in piazza e si incontrano con le amiche del gruppo, in minigonna o con quelle gonne femministe a balze che andavano di moda all’epoca, ma ci sono ancora donne vestite interamente di nero che si vergognano di passare davanti ai due bar – dominio maschile assoluto -, qualche raro asino che gira ancora per il paese tra le “127” e qualche luccicante macchina sportiva, ci sono chiacchiere e pettegolezzi senza fine e ci sono occhi che spiano costantemente dietro le persiane, per scoprire o anticipare le novità. Non esiste turismo al Forte delle Orchidee, salvo il ritorno dei tanti emigranti, salvo che nel luglio di quell’anno vi arrivò inaspettatamente, a bordo di una potente motocicletta, un giovane, misterioso e affascinante belga, Pierre Duchamp. Pierre pianta una tenda nel campeggio municipale (in cui non c’è nessun altro ospite oltre a lui: chi andrebbe mai in vacanza al Forte delle Orchidee? ) e inizia, a suo modo, un altrettanto misteriosa indagine. Solo Rory, il leader di un gruppo di cinque ragazzi che hanno il suo giardino come punto di riferimento, gli darà una mano; E, tra reticenza e trasparenzanon sarà facile andare a fondo di aincredibile complottotutta femmina, per cui Pierre Duchamp non si chiama Pierre Duchamp, non è belga e non ha nemmeno l’età che pensa di avere.

In aggiunta a 70che per me profumano di ricordi, lo sfondo di L’ultima estate nel villaggio è il Molise dove ho vissuto tutta la mia vita, il Molise con i suoi prati, i suoi boschi e le sue montagneil Molise che “non c’è” ma di una bellezza mozzafiato, arcaico e moderno, fatto più di spazi vuoti che di pieni, un po’ selvaggio, seducente e tenacemente aggrappato ai suoi segreti.

L'ultima estate nel villaggio

L’AUTORE – Simonetta Tassinari cartello Storia e filosofia nelle scuole superiori. Ha insegnato “Laboratorio Didattico di Filosofia” presso l’Università degli Studi del Molise, è stata tutor universitario del TFA (Tirocinio Formativo Attivo), da anni coltiva psicologia relazionale, psicologia dello sviluppo, consulenza filosofica e il divulgazione filosofica per bambini e adolescenti. È animatrice di “Caffè Filosofici” partecipativi e tiene convegni e presentazioni in tutta Italia.

Pubblicato romanzitesti di argomento storico-filosofico (tra gli altri, per la scuola Einaudi) e il “geniale” saggio – sull’insegnamento della filosofia nelle scuole – La sorella di Schopenhauer era una escort (Corbaccio). Con Corbaccio pubblicò anche Donna Fortuna e i suoi amori, La casa di tutte le guerre E Le donne calabresi di Montebello.

Per Feltrinelli ha pubblicato nel 2019 Il filosofo dentro di te; Filosofia SOS. Le risposte dei filosofi ai bambini per affrontare le emergenze della vitarivolto agli adolescenti; Il filosofo influencer. Togliti i paraocchi e pensa con la tua testa (2020); per Gribaudo Filosofia istantanea (2020) e Le 40 parole della filosofia (2021) e Il Libro Rosa della Filosofia – Da Aspasia a Luce Irigaray, la storia mai raccontata del pensiero femminile (2024).

Ora è in libreria per Corbaccio con L’ultima estate nel villaggio: in uno sperduto paesino di montagna del Molise, durante l’estate del 1975 arriva inaspettatamente un giovane straniero, alto, biondo, in sella ad una potente Kawasaki: si chiama Pierre Duchamp, cittadino belga, architetto di professione

Ecco i suoi articoli per ilLibraio.it.

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