ora guardiamoci negli occhi e ripartiamo con coraggio – .

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“Vieni a ballare Puglia”: così cantava Caparezza quando era da poco diventata una meta ambita. Puglia felix, trendy, alla moda. Più del Chianti, meglio di Ibiza, quasi della Costa Azzurra. Un tormentone musicale ne decretò l’innegabile successo nonostante dubbi e zone d’ombra. E solo chi voleva fingere non capiva.

Il grosso rischio è che indagini travolgere e portare via tutto il resto: il buon lavoro svolto finora, il lavoro ancora da svolgere e il lavoro che necessitava di essere rivisto perché non funzionava correttamente. Il rischio è che tutto finisca nei tribunali, su una lavagna divisa in buoni e cattivi. Intendiamoci: accogliamo con favore il lavoro della Procura per far luce sui nessi illeciti tra politica e criminalità, accogliamo con favore le indagini per denunciare gli abusi di potere perpetrati ai danni della collettività. Abbiamo bisogno di una magistratura che scavi e agisca come il pane. C’è però un altro lato della medaglia: la battaglia per la trasparenza non basta se si dimentica il resto e se invocare accordi per la legalità è a dir poco tattica.

“Pulire” non basta per guidare un piccolo comune o un territorio più grande. Prima di tutto è importante porsi alcune domande. Siamo diventati la California (per tornare al libro di Franco Tatò dove tutto ebbe inizio) oppure no? La Primavera pugliese è stata un cambiamento che ha lasciato tracce oppure la narrazione evocativa ha preso il sopravvento sulla realtà? Si è davvero fermato l’esodo dei giovani oppure il rallentamento del fenomeno è rimasto a macchia di leopardo? La crisi dei colossi industriali è stata compensata dai nuovi poli tecnologici con importanti ricadute occupazionali?
Domande che presuppongono una premessa: di passi in avanti ne è stata fatta dai tempi dei “ladri” se oggi la Puglia è una terra che attrae come testimoniano i selfie di Madonna, le masserie invase dagli stranieri per matrimoni da favola e l’assalto delle troupe cinematografiche. Il corollario è ovvio: nascondere le questioni irrisolte è un modo per eludere quelle stesse domande.
Il brusco risveglio giudiziario è l’occasione per guardarsi negli occhi prima della ripartenza. Certo, ognuno farà la propria partita in vista delle scadenze elettorali ed è fisiologica una battaglia senza esclusione di colpi. Ma l’occasione è troppo importante per non coglierla e rimandarla. Per un duplice motivo: i destini che si incrociano a Bari e il ruolo della politica.
Il primo motivo riguarda il capoluogo pugliese, snodo cruciale per capire chi siamo e dove vogliamo arrivare. È inutile ostentare la verginità territoriale in nome della sub-identità: se è marcia Bari lo è tutta la Puglia, se Bari vedrà di nuovo la luce in fondo al tunnel la radura si allargherà a macchia d’olio. Perché tutto o quasi passa dalla Regione, perché Bari è il motore dell’economia, perché a Bari lavorano e vivono molti più leccesi, brindisini e tarantini di quanto possiamo immaginare. Se vogliamo essere pugliesi non possiamo fare a meno di chiamarci anche Baresi. Al di là dei sani campanilismi che ci sono se c’è di mezzo il calcio, ma che non sono ammessi quando si parla di sviluppo e lavoro. Il caso Bari riguarda tutti, da Poggio Imperiale a Leuca, e trovare la via d’uscita non può lasciare indifferente nessuno.

Le vicende giudiziarie, e siamo al secondo motivo, ci offrono l’occasione per riflettere sulla politica trasformata in esercizio del potere e gestione del consenso. E torniamo a parlare di contenuti e obiettivi. Quanto tempo è passato dall’ultima volta che lo abbiamo fatto? Da quanto tempo, salvo poche eccezioni, la politica ha ceduto al clientelismo elettorale o all’arricchimento personale? Non c’è bisogno di fissare date precise, ma c’è stato un tempo in cui la politica – e non solo da una parte – dibatteva se puntare o meno sulle energie alternative, se spingere il turismo di massa o cercare strade alternative, se potenziare gli aeroporti o linee ferroviarie. C’era un tempo in cui un consigliere regionale come Guglielmo Minervini (mai pentito più di oggi) inventava le “Bollenti Diritti” per sostenere le idee imprenditoriali dei giovani che altrimenti sarebbero costretti a chiedere soldi al padre o a fare le valigie: la significato di una visione che oggi ci manca, frastornati come siamo da conferenze stampa, foto ai tavoli, selfie inaspettati, ispezioni social e aneddoti dal palco.
C’è stato un tempo in cui la politica indicava un orizzonte (sognato e allo stesso tempo raggiungibile) e il resto della società cercava di seguirne le orme. La politica ha lanciato sfide e il territorio le ha raccolte: imprenditori, aziende, cooperative, università, associazioni. E se qualcosa non funzionava, c’erano intellettuali tutt’altro che compiacenti a ricordarcelo – un Franco Cassano o un Alessandro Leogrande – e non c’era modo di tenere la polvere nascosta sotto le copertine patinate.

Non molto tempo fa, ma sembrano anni luce. Adesso la politica segue l’esempio e non indica più la strada. Con un dipartimento sanitario regionale dove si fa tutto il possibile per tappare i buchi dell’assenza di un percorso anche sulla scelta se costruire o meno nuovi ospedali. Senza una strategia di programmazione culturale in grado di valorizzare un caleidoscopio di risorse umane come poche altre regioni vantano. C’è chi prova a resistere, ma spesso finisce per essere sconfitto. I migliori talenti scappano e gli arrampicatori sociali irrompono nella totale mancanza di formazione politica che solo i nostalgici pensano di poter recuperare semplicemente resuscitando i partiti. Nel peggiore dei casi ci ritroviamo con una classe dirigente senza scrupoli, nel migliore dei casi con politici che in altre stagioni sarebbero stati chiamati solo per farsi portare il caffè dal bar più vicino.

Transformers pronti a cambiare abito o fedeli a questo o quel leader e, questa volta, la differenza non conta. In entrambi i casi senza codici morali. Primavera che, non avendo nemmeno il tempo di godersi l’estate, svanisce già nell’autunno. Il potere fine a se stesso prevale se c’è povertà di idee e il senso della res publica è un alibi strumentale. Quanto basta per alimentare – come il cane che si morde la coda – l’ennesima indagine giudiziaria. Abbastanza per ingrossare le fila di chi non va più a votare.

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Giornale pugliese

 
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