Breaking news
Anna ha una sosia, le somiglia davvero? – . -
“Sono finito in tre liste nere” – . -
dove si trasferirà – Il Tempo – . -
La Rai sferra un colpo potentissimo – . -
Sequestrati 4000 ricci di mare – . -

La storia che l’Italia racconta di sé – .

La storia che l’Italia racconta di sé – .
La storia che l’Italia racconta di sé – .

“Raccontare l’Italia” di Luigi Zoja sembra una controstoria dell’Italia e lo è, perché ci troviamo di fronte a un’opera che racconta la storia che l’Italia racconta di sé, dalla nascita di Roma ai giorni nostri. La storia della storia può sembrare una scherzoun’astrazione, a stratagemma di ribaltare i “fatti”, ma è tutt’altro: è un tentativo (magistrale) di descrivere la psiche collettiva del Paese (Luigi Zoja è uno degli psicanalisti più eminenti) nella sua storia: dalle vette del Rinascimento, quando l’Italia ha plasmato l’Europa, fino alle viscere del dominio sabaudo/fascista, quando esacerba i nostri peggiori difetti. Potrebbe addirittura essere il nuovo “libro di testo” di una sinistra lungimirante; ma questo è un altro discorso: torneremo.

Perché allora è una controstoria? Perché analizza, critica, anzi rivela come l’autonarrazione degli ultimi due secoli, ancora prevalente, esalta caratteristiche del nostro Paese che dovremmo piuttosto abbandonare, e tace su altre, fondamentali, che ci hanno permesso di avere una grande influenza nel mondo.

Guardiamo la prima tesi contraria: è l’idea che per essere grande l’Italia debba essere uno Stato potente. Questo concetto è alla base del colonialismo, che solitamente viene attribuito solo al fascismo, ma esso ha inizio molto prima (la colonia dell’Eritrea risale al 1882) e affonda le sue radici nella dinastia sabauda, ​​tanto che Zoja scrive che, sotto il sotto il manto retorico di un’Italia “finalmente unita” si nasconde una vera e propria “piemontizzazione” del Paese.

Firenze, al contrario, è stata al centro del mondo, e con lei tutto il Rinascimento italiano, senza aver conquistato neppure un centimetro di territorio, senza alcuna politica di potenza. In generale, l’Italia ha avuto la sua massima influenza quando era frammentata in città, ciascuna in competizione con le altre sulla creatività, e ciascuna dotata di uno spirito autonomo e indipendente. Lo stesso Impero Romano, fondato sulla conquista militare, ha creato/sviluppato i due più grandi programmi universali della storia occidentale: il diritto romano e il cristianesimo, nessuno dei quali è fondato sul potere, ma sulla forza delle idee e della “parola”. Nell’Impero Romano non esisteva il primato etnico e men che meno l’idea di una “razza italiana”, pura invenzione/narrazione del fascismo: essere cittadino romano era la distinzione, basata sulla legge e non sulla razza o sull’etnia. Il diritto romano sopravvisse alla caduta dell’impero, tanto che Zoja può scrivere che era Roma a contenere l’Italia, e non il contrario.

L’Italia è “campione del mondo” ogni volta che sviluppa il suo straordinario “soft power”, quello che Dante definì “umile potere”, la capacità di fare le cose, di farle bene, di farle con un’anima. Il potere umile si contrappone alla pomposa retorica del primato basato sulla forza. Tutte “qualità” (si fa per dire) che portano l’impronta sabauda, ​​ereditata poi dallo Stato nazionale e dal fascismo: “Le monarchie cercano la gloria, non la libertà”.

Un’altra narrazione fuorviante è quella di un’Italia-Arcadia, di un Paese fuori dal tempo e dallo spazio, perfetto, buono e senza difetti, che non realizza le sue potenzialità solo a causa dell’opposizione del mondo esterno, ma Petrarca direbbe “È nostro peccato, non è una cosa naturale”. La narrazione di Italia-Arcadia nasce come autocelebrazione retorica ogni volta che viene meno la sua capacità di realizzare la propria vocazione, quella naturale, di creare influenza, primato e prosperità sulla base delle idee.

Una parte letteralmente controstoria, perché basata su fatti, statistiche e notizie (il libro è una ricchissima e sorprendente sovrapposizione di livelli disciplinari: dagli avvenimenti fattuali alla psiche collettiva; dalla storia dell’arte alla commedia dell’arte) è dedicata all’ Austria e alla “leggenda nera”, che dipingeva l’impero asburgico come oppressivo e arretrato, mentre tutto lascia pensare che i territori italiani sotto l’impero asburgico, multietnici, plurilinguistici e non colonialisti, fossero certamente più sviluppati rispetto quelli sabaudi. Nel 1765 Maria Teresa creò il catasto in Lombardia (per il resto d’Italia dovemmo aspettare un secolo!) e basò la tassazione sulla superficie, così da penalizzare le terre incolte; Questa decisione portò ad un aumento della produzione agricola e la popolazione crebbe del 50% in 40 anni. Costruì il più grande teatro dell’Impero a Milano (non a Vienna) (La Scala), incrementò l’istruzione e la Lombardia divenne chiaramente la prima in Europa per ricchezza.

La politica di potenza dell’Italia si sviluppa sulla lunga narrazione sabauda, ​​quindi colonialismo, fascismo e l’idea – perché pur sempre si tratta di storia delle idee – che il “futuro” dell’Italia si fondi sulla sua potenza militare (per di più smentita ogni volta che viene messo alla prova, nonostante l’astuzia del gioco delle alleanze).

Del resto, nel secondo dopoguerra, furono proprio le caratteristiche asburgiche di De Gasperi, nato nell’Impero, parlamentare di quell’impero, a permettere all’Italia un trattamento molto diverso e migliore rispetto a Germania e Giappone (il nostro Paese non ha mai avuto una Processo di Norimberga per giudicare i crimini dei gerarchi fascisti). Non è semplicemente un caso che il più grande politico europeo del secolo scorso (vedi il recentissimo saggio di Antonio Polito per comprendere il valore di De Gasperi) provenga da quella tradizione di governo, e non da quella franco-sabauda.

Perché un “libro di testo” della sinistra, allora? Perché ogni volta che l’Italia mette in primo piano gli umili diventa grande, e ogni volta che segue la retorica statale nega la sua identità più profonda. In questo vale anche il piccolo esempio del cinema: durante il fascismo chilometri di retorica cinematografica non creavano capolavori, ma nell’immediato dopoguerra bastava ritornare all’umile (come oggetto della narrazione) perché l’Italia ritorni ancora grande nel mondo con Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini. Il cinema era un fenomeno popolare, perché rappresentava il paese reale e i soggetti erano tratti dalla vita vissuta dalla comunità. Nel 1946 il film più visto era “Roma città nuova”; nel 1947 “Sciuscià”; nel 1948 “Ladri di biciclette”; nel 1949 “Riso amaro” e così via fino a tutti (o quasi) gli anni Sessanta. Una clamorosa smentita della narrazione odierna secondo la quale solo la mediocrità può raggiungere il successo di massa…

Nella nostra interpretazione, il senso “sinistra” del libro sta nel punto di partenza e nel punto di arrivo: partire dal sentimento popolare, o per dirla con Zoja dall’inconscio collettivo, è sempre una buona guida; discernere tra i sentimenti più profondi scegliendo, direbbe Lincoln, “i migliori angeli della nostra natura”, per nutrirli, valorizzarli e diventarne portatori è il punto di arrivo di una proposta politica non casuale. Il primato dell’antiretorica; il primato degli umili; il primato della moralità sul cinismo; il primato della verità; il primato della psiche collettiva rispetto all’astrattezza della retorica sono tutti fenomeni di lunga riflessione che possono trovare casa ovunque, ma soprattutto – verrebbe da dire – proprio nell’ambito della sinistra.

Allineare il pensiero di Zoja con quello di De Rita, che vede l’Italia crescere – quando cresce – “ovunque e vicino alla terra”, cioè dal basso, in modo molecolare, intrecciando sentimenti, territorio e creatività, consente una visione diversa della sviluppo, legato proprio alla sua lunga identità. C’è bisogno quindi non del pensiero di chi ha il compito di pensare il pensiero degli altri in modo pedagogico (nella migliore delle ipotesi) o prescrittivo (nella peggiore), ma connesso a quello collettivo, e principalmente degli umili. Gli umili, direbbe Heidegger, hanno una formidabile preconoscenza. Non si tratta quindi dell’“intellettuale collettivo” di Gramsci, ma semplicemente dell’espressione dell’appartenenza a un mondo più ampio, che comprende le ansie e le speranze di tutti. Inoltre, il “miracolo economico” è stato realizzato dalla visione delle migliori intelligenze e dalla libera azione del “formicaio” degli umili che hanno costruito case, istruzione, imprese e dal “localismo”, vera “anomalia” italiana dei modelli di sviluppo . Per recuperare quella psiche collettiva parzialmente perduta, abbiamo bisogno di un’altra narrazione fiduciosa, creativa e persino felice di noi stessi.

Sarebbe però riduttivo collocare l’immensa opera di Zoja solo in questa prospettiva, perché è un libro spartiacque, denso, destinato a durare, ad acquisire forza esplicativa nel tempo. Le prime 250 pagine sono travolgenti, non lasciano respiro, come un fuoco sacro alimentato senza sosta, il resto diventa più razionale, più lentamente, quasi a voler intraprendere la dimostrazione di quanto impetuosamente detto all’inizio. È un libro scritto per spiegare l’Italia e contrastare la narrativa attuale che ignora ciò che ci rende grandi e asseconda invece i nostri difetti. Lettura essenziale.


 
For Latest Updates Follow us on Google News
 

PREV la Consulta incontra Brunetti per il Verde Urbano – .
NEXT Aggressione armata a Sassari, caccia al commando di 20 banditi – .