Superga 75 anni dalla tragedia del Grande Torino – .

Il 4 maggio di 75 anni fa, il disastro aereo sulla collina di Torino trasformò la squadra più forte di tutte, già leggendaria in campo, in un gruppo di eroi. Al funerale parteciparono oltre mezzo milione di persone

Giornalista

4 maggio 2024 (modificato alle 07:45) – MILANO

Il silenzio, il cielo che si oscura, la folla. Immenso. Cinquecentomila persone, forse di più. Era il 6 maggio 1949, un venerdì. Torino si è fermata, l’Italia si è fermata. Nel tardo pomeriggio si sono svolti i funerali delle vittime della tragedia di Superga. Nello schianto di due giorni prima, contro il terrapieno della Basilica sul colle che domina la città, avevano perso la vita una delle squadre più forti mai viste su un campo di calcio, i Granata, insieme ai loro compagni, tre giornalisti e esponenti della equipaggio del velivolo trimotore G-212 delle Avio Linee Italiane. Trentuno morti. Per essere seguito da quanta più gente possibile, il corteo funebre aveva compiuto un giro molto lungo. Le bare erano partite da Palazzo Madama e, una volta caricate su alcuni camion, avevano preso Via Roma, attraversato Piazza San Carlo, raggiunto Piazza Carlo Felice, svoltato in Corso Vittorio Emanuele II, preso Corso Re Umberto, Via Alfieri, Piazza San Giovanni e infine arrivò davanti alla Cattedrale. Un milione di occhi puntati su quella strada, e tutte le altre strade deserte. Al momento della benedizione la facciata della cattedrale aveva perso tutta la sua luce, era pallida, e così tutta la piazza. Era difficile da vedere. Come due giorni prima, nell’aria.

Torino, una squadra di campioni

Gli eroi sono tutti giovani e belli, cantava Guccini. Chi ha esaltato le folle e muore, all’improvviso e in modo così tragico, diventa automaticamente una leggenda. La scomparsa cristallizza la bellezza dei gesti, la pulizia dei comportamenti, evita la parabola discendente e l’inevitabile invecchiamento, che non sempre si rivela felice. Ma a volte la trasformazione non è necessaria, perché la leggenda è già in atto da tempo. Quel Torino aveva praticamente vinto il quinto scudetto consecutivo, giocava un calcio meraviglioso e prima di allora in Italia non si era visto nulla di simile. Era una squadra nata molto tempo fa, da quando Ferruccio Novo ne divenne presidente nell’estate del 1939 e cominciò a costruire il gruppo, pezzo dopo pezzo. Lo aveva fatto insieme a Roberto Copernico, titolare di un negozio di abbigliamento in città e fidato consigliere. I pezzi erano andati al loro posto come previsto e a un certo punto sono emersi gli imbattibili. Bacigalupo era un portiere gentiluomo, che aveva digerito in fretta l’amarezza di una partita Italia-Ungheria del 1947 in cui scesero in campo 10 giocatori del Toro con la maglia azzurra e, tra i pali, Sentimenti IV della Juve.

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I terzini erano Ballarin, forte fisicamente, e Maroso, con una classe come pochi altri. I Granata giocavano con il “sistema”, cioè il WM (dove V e M rappresentano il modo in cui i giocatori venivano messi in campo), e quindi davanti ai terzini c’erano il classico Grezar da una parte e il efficace Castigliano dall’altro, con Rigamonti in mezzo che da esuberante a ordinato ha risolto il problema del centrale. In attacco, da destra a sinistra, Menti (esterno dal gran tiro), Loik (quello che allora si chiamava centrocampista in difficoltà), Gabetto (centravanti che si muoveva tanto ma segnava altrettanto), Valentino Mazzola (il campione assoluto, capitano e fenomeno a tutto campo) e infine Ossola, il più tecnico e forse quello che meglio si sarebbe adattato al calcio di oggi, ricco di tattiche e schemi. Speciali anche le riserve: Tomà (il vice Maroso), Martelli (nel ruolo di Grezar), Fadini (centrocampista di classe) e poi in attacco il francese Bongiorni, Grava e Schubert, romeno nato a Budapest. Negli anni furono diversi ad allenarli: Antonio Janni, Luigi Ferrero, Mario Sperone e poi l’inglese Leslie Lievesley affiancato come direttore tecnico dall’ungherese Egri Erbstein, che ricopriva quel ruolo dal 1943.

4 MAGGIO 1949 TORINO, LA TRAGEDIA DI SUPERGA, SCRIVE UN BAMBINO

le maniche di mazzola

Hanno vinto tanto ma senza particolari segreti. Hanno puntato sulla forza della semplicità, sono stati tosti in campo e se la sono cavata bene anche fuori. La città li amava e li rispettava ma senza idolatrarli: Ossola e Gabetto possedevano un bar in centro e quando non si allenavano passavano le ore con i clienti. Allora la squadra aristocratica e un po’ equilibrista restava la Juventus, mentre il Toro rappresentava la solidità concreta e vincente. Tanto che durante la guerra, per evitare la deportazione nelle industrie belliche in Germania, i Granata furono inquadrati come dipendenti della Fiat – che produceva utilitarie – mentre i bianconeri finirono alla Cisitalia, che realizzava modellini di design. Ci sono tutte quelle storie – vere del resto – sui dieci minuti in cui decisero di vincere le partite, sul ferroviere Bolmida che suonò la tromba e poi Mazzola si rimboccò le maniche e le sorti della partita cambiarono. Ma non è il caso di esagerare con la retorica, talento e doti atletiche sono state riconosciute da tutti. Boniperti, l’uomo più juventino di sempre, ha detto: “Cos’era Mazzola? Era l’uomo che si materializzò, durante un derby, sulla linea della porta per fermare con il tacco un pallone che avevo calciato a colpo sicuro e che ora mi aveva fatto gridare al gol, e pochi secondi dopo, deluso, ritornai a centrocampo e alzò la testa chinata per il disappunto, segnò un gol nell’altra porta”. Fu un gruppo di grandi atleti che diventarono campioni, ma rimasero brave persone uscite dalla guerra. Ammirato in Italia perché quella squadra, con le sue imprese, ha fatto rivivere tutti. E invece lei, all’improvviso, è morta.

l’altimetro difettoso

Alle 17.02 di mercoledì 4 maggio l’equipaggio ha chiamato per l’ultima volta la torre di controllo di Torino. Il pilota – di cognome Meroni, a dimostrare come la storia dei Granata sia piena di ricorrenze del destino – aveva intenzione di girare la prua di 290 gradi per allinearsi sulla pista di atterraggio. Ma il forte vento da sud-ovest aveva spostato la rotta dell’aereo e l’altimetro rotto segnava 2000 metri quando in realtà il G-212 viaggiava a 600. All’improvviso, dalla nebbia mista a pioggia, è emersa la basilica. Alle 17:05 la torre di controllo ha chiamato l’equipaggio. Non c’è stata risposta.

 
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