“Sono sempre incinta di storie. Parlo di sogni e di morte perché rappresentano il mistero” – .

“Sono sempre incinta di storie. Parlo di sogni e di morte perché rappresentano il mistero” – .
“Sono sempre incinta di storie. Parlo di sogni e di morte perché rappresentano il mistero” – .

Salvatore Niffoi, detto Carrone, nella sua casa in Barbagia, nelle campagne di Orani, sta ascoltando una canzone di Claudio Lolli, ma risponde volentieri alle domande, iniziando subito a raccontare. Sì, perché il suo modo di rispondere è la narrazione. Prende la parola e emergono episodi, aneddoti, avvenimenti del passato, spezzoni di autobiografia. “Sono sempre gravido di storie” dice del professore. «A scuola, durante la formazione professionale – a Orani non esistevano le scuole medie – stavo sempre in un angolo a scrivere. Le maestre mi hanno detto: Salvatorino, dove vai oggi? E ho iniziato a scrivere e ho volato, volato… . È stato bellissimo”. L’ultimo libro di Salvatore Niffoi è Il collezionista di specchi (La nave di Teseo) e racconta la storia di un bambino, Bertinu Muscari, detto Ispiccittu (specchio), nato nel dopoguerra, e della sua attrazione per gli specchi, in un rapporto oscillante tra slanci vitali e abissi mortali.

Professore, è inutile chiederle se il personaggio è autobiografico. Qual è stata l’ispirazione per il romanzo?

“È autobiografico al 90%. Sono un prodotto della guerra, sono nato in una sorta di tomba sotterranea, una casa scavata nella terra, buia, senza servizi. Rimasi lì per sette anni. Non ho mai avuto il coraggio nemmeno di lasciarlo vedere”. a mia moglie. L’ha visto solo la mia grande amica Dori Ghezzi. Bertinu ha un passato del genere? Un episodio di tanti anni fa non sono riuscito a vedere nulla. Ho detto a mia moglie: apri la finestra e prova a pulire il vetro con le mani. Subito dopo la fermai e le dissi di scrivere: avevo avuto un’illuminazione, immaginavo di vedere negli specchi quello che non vedevo. potevi vedere attraverso il parabrezza. Le storie nascono così. A volte basta un niente, uno sguardo, una cattura. Scrivo a mano e ho sempre con me un quaderno per gli appunti: in camera, in macchina, nella borsa di mia moglie”.

Anche la dimensione dei sogni ha grande spazio in questo romanzo. Perché?

«Nasce dall’esigenza di non dare mai una collocazione precisa, cioè di lasciare tutto in sospeso. Sono cresciuto a pane e storie, più storie che pane, e nella storia c’era sempre una parte fantasiosa che dovevi scoprire da solo. Il sogno è quasi sempre legato al mistero, alla scoperta. Sono contrario ai libri che sono già stati rivelati”.

In tutto il romanzo, e poi nel sorprendente finale, c’è un vivace dialogo con la morte. Anche questo è autobiografico?

“Ho visto la mia prima persona morta uccisa all’età di quattro anni. Sono uscito la mattina presto con mio nonno per andare al panificio e abbiamo visto per strada un uomo decapitato; mi ha detto: non guardare, non guardare, ma ho visto. Orani era chiamata la terra della scure. Nella società odierna c’è l’allontanamento della morte, nel romanzo lui ha una grande paura della morte, ma poi trova una persona che la fa andare via e quindi non ne fa un problema ci rispecchia, è la rappresentazione dolorosa dell’essenza effimera della nostra vita e nasconde il lato oscuro che non vogliamo vedere. La morte è misteriosa, non è mai come la immaginiamo. La letteratura oggi non vuole parlare di queste cose”.

I suoi romanzi sono in italiano, ma c’è spazio per la lingua sarda. Hai due lingue native?

“Due lingue? Per carità. Ho succhiato la lingua sarda come colostro materno. Poi è arrivato l’italiano, con i libri di mio nonno, che era un analfabeta quasi colto, nel senso che leggeva di tutto, anche l’ABC, la domenica del corriere, l’Espresso. La lingua è uno strumento versatile, bisogna usarlo senza agitarsi. Con i miei studenti sceglievamo alcune parole difficili dai giornali e poi dovevamo tradurle in francese, inglese e sardo”.

Come si raggiunge l’equilibrio tra italiano e sardo?

“La lingua è anarchica e non si lascia mai mozzare la coda, ricresce sempre. Perché mescolo italiano e sardo? Perché amo il crossbreeding, la mescolanza delle razze. In Sardegna ci fu un folle tentativo di creare un’unica lingua sarda e di insegnarla nelle scuole. Ma qual è il punto? Il sardo è una lingua affettiva, la sua bellezza è che in ogni paese esiste una lingua diversa. Portare un tedesco o un milanese a insegnare il sardo unitario è un suicidio, è autocolonialismo”.

Cosa rappresenta per te Grazia Deledda?

“Deledda somigliava moltissimo a mia madre e alle donne a cui tengo. Era una donna che faceva molto e mostrava poco, pensava molto e chiacchierava poco, come diciamo noi. Era una femminista ante litteram, molto concreta. Anche a lei, come a me, piaceva l’espressionismo descrittivo. Nei miei primi romanzi mancavano i dialoghi, erano racconti su larga scala perché la natura, in Sardegna, te lo impone. In Barbagia non può essere un elemento secondario, non è mai sostanza di ambientazione, nemmeno in Deledda. E i personaggi traggono linfa vitale, come i funghi, da questo humus che è il paesaggio”.

Perché tutti i tuoi personaggi hanno dei soprannomi?

“In Sardegna se non hai un soprannome non sei nessuno. Nei miei libri i soprannomi sono sempre legati alla personalità, sono una carta d’identità psicologica; servono anche per indicare difetti e qualità fisiche. Se chiamo una donna Malichinzu, cosa vuol dire prurito, posso evocare il prurito ai piedi ma anche da qualche altra parte… I soprannomi sono molto potenti”.

Contano ancora molto nella vita di tutti i giorni?

“Se mi vieni a cercare qui a Orani e chiedi di Salvatore Niffoi ti dicono: quale? Eravamo in dodici con il mio nome, ora ne sono rimasti tre o quattro. Quante volte la mia posta veniva portata da un mio zio, Salvatore Niffoi, detto l’Africano, e poi me la doveva portare».

Qual era il vero Salvatore Niffoi?

“Salvatore Niffoi detto Carrone, sul professore”.

 
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