sue opere anche alla Tate Gallery di Londra e al Queens Museum di New York Il Tirreno – .

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Un fiore nato tra le pieghe dell’asfalto. La storia di Roberto Barni, artista di fama internazionale, le cui opere possono essere ammirate in musei come gli Uffizi, la Tate Gallery di Londra, il Queens Museum di New York solo per citarne alcuni, è decisamente insolito e parla il linguaggio misterioso della vita stessa. «Sono uscito da me stesso», racconta Barni, nato nel 1939 nella campagna pistoiese da genitori contadini che mai avrebbero immaginato un percorso così insolito per il figlio: l’ultimo nato dopo diversi anni di distanza dal primo, un fratello e tre sorelle, Roberto ha mostrato fin da subito una grande passione per il disegno, unita ad un’intelligenza e curiosità del tutto particolari.

In realtà, il padre, che suona il clarone nella banda Borgognoni di Pistoia, ha probabilmente instillato qualche seme di creatività in questo figlio dalle «ambizioni celestiali», mentre la madre, donna intelligente e sensibile – «chiamava le sculture “persone fisse” , una ‘bella idea’ – gli insegna ad amare la natura che lo circonda e a cogliere la bellezza dei luoghi in cui cresce.

Durante gli anni del liceo, mentre frequentava controvoglia la scuola come perito agrario, passava il tempo a disegnare sulle pagine dei libri, facendo arrabbiare gli insegnanti: “Sentivo che non era il mio destino”, dichiarava. E infatti, appena laureato, comincia a dipingere, inizialmente grandi tele materiche monocrome in rosso.

A Pistoia stringe le prime amicizie davvero importanti: con il futuro architetto Adolfo Natalini e con l’artista Gianni Ruffi, un’autentica fratellanza di tre: «Nonostante la nostra diversità, un forte sentimento ci legava», che lo ha sostenuto nel suo fare arte per tutta la vita. Deciso a perseguire la sua vocazione, decide di celebrare la sua attività con un autoritratto che passerà alla storia, una fotografia in cui, come un novello Don Chisciotte, indossa un imbuto come cappello e porta come scudo un ombrello aperto. : «Un eroe domestico, con una grande visione della vita nella dimensione quotidiana», spiega.

Uno slancio del cuore, un entusiasmo che non ebbe risposta immediata in un mondo in cui l’artista è marginale, e che portò lui, giovane emotivo e con una passione eroica per l’arte, a fotografarsi nuovamente un paio d’anni dopo accanto a al proprio necrologio: «Michelangelo fece la Pietà a 22 anni e il David a 25: ai nostri tempi l’artista deve fare una fatica enorme per farsi riconoscere».

I suoi dipinti e le due immagini furono però esposti presso la famosa galleria fiorentina Numero di Fiamma Vigo, personaggio anticonformista promotore dell’arte più innovativa dell’epoca, che Barni aveva conosciuto nel 1961, in occasione di una mostra internazionale di arte astratta a Pistoia alla quale aveva partecipato insieme ad alcuni artisti rappresentati dal gallerista. L’approdo a Firenze gli garantì una visibilità diversa e soprattutto il contatto con personaggi dalla sensibilità simile alla sua, come l’artista Alberto Moretti che lo aiutò a ottenere una borsa di studio di un milione di lire (che per gli anni Sessanta era davvero tanti), da parte del Comune di Firenze, che all’epoca sosteneva gli artisti meritevoli; in cambio Barni donò alcune opere alle collezioni comunali, ora esposte al museo Novecento. Ma soprattutto qui incontra la donna della sua vita, quella che definisce la sua Beatrice, Sara Menghetti, una germanista che lo colpisce per la sua intelligenza e capacità di amare: «Quando l’ho vista ho pensato “domine non sum dignus”» , spiega, con ancora l’emozione nella voce nonostante sia passato più di mezzo secolo. Con lei, conosciuta nel ’67 e mai più lasciata, ha coltivato la sua grande passione per la musica e la poesia, e ha cresciuto una famiglia composta da Selva, fotografa, e Tommaso, architetto.

Il suo lavoro progredisce, stringe amicizie ulteriormente stimolanti, come quella per l’illuminato collezionista Giuliano Gori, che iniziò acquistando da lui alcuni dipinti quando non era ancora un artista affermato e per il quale realizzò poi la famosa scultura “Servi Muti” che accoglie i visitatori all’ingresso della fattoria di Celle: «Ero innamorato di Beckett, e quest’opera si ispira al suo “Aspettando Godot”, di cui queste figure rappresentano la straordinaria attesa trasformata in statica, in una tavola. Una condizione che riguarda l’uomo”, commenta l’artista.

E ancora la collaborazione con Spoerri, per il cui giardino ha realizzato la scultura “Continuo”, omaggio al grande amore di Barni per la musica barocca: «È la traduzione visiva dell’arco barocco, che va avanti e indietro sulle corde per produrre il suono: le due figure salgono e scendono l’una verso l’altra, come nel contrappunto di Bach.”

Barni esplora ogni mezzo espressivo, anche i libri d’artista, di cui realizza numerose versioni, spesso con collaborazioni illustri – Piero Bigongiari, Andrea Zanzotto, Cesare Mazzonis – poi direttamente con le sue poesie, piccoli haiku che continua a scrivere. Nel 2013 l’allora direttore degli Uffizi Antonio Natali gli chiese di realizzare una scultura in occasione del ventennale della strage di via dei Georgofili. Invece di ricordare la tristezza, Barni sceglie di celebrare la vita delle persone scomparse nell’attentato e crea una grande figura ricoperta di foglia d’oro, che trasporta altri cinque personaggi, per rappresentare la presenza solare delle vittime. Nonostante le mostre in tutto il mondo, Roberto Barni non ha cambiato la percezione di sé: «Sono un artista perché ne sento il bisogno, non perché qualcuno me lo conferma. Il successo non ci definisce, siamo solo noi a farlo. L’arte che non esiste ci chiama, è come un miracolo, quando creo un’opera ne sono il primo fruitore”, dichiara. Del resto per lui l’arte non è semplicemente un lavoro, è un modo di esistere, di creare un mondo migliore. «Voglio solo fare arte, sempre, anche durante una conversazione. Solo noi possiamo creare la realtà: se l’universo esiste è perché lo affermiamo”, conclude.

Tag: opere Tate Gallery Londra Queens Museo York Tirreno

 
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