Anora. Recensione del film di Sean Baker – .

Dopo il matrimonio a Las Vegas, Anora annuncia di voler lasciare lo strip club dove ha lavorato fino a quel momento. E dice a un’amica che dovrebbe scegliere Disneyland per la sua luna di miele. È quello che aveva sempre sognato da bambina, immaginando di diventare una principessa. La sua mente, è chiaro, corre subito a pensare IL Progetto Florida, che, alle porte di Disney World, raccontava di una comunità surreale e di una vita non proprio principesca. Ma è, in generale, uno dei temi fondamentali di Sean Baker. Le persone provano o immaginano di andare oltre le loro solite preoccupazioni, ma il sogno che hanno in mente ha assorbito tutti gli scarti possibili di un modo di vivere e di un immaginario artificiale e dopato. È diventato un sogno di cartone e plastica. Differenziabili e riciclabili. Oppure l’imitazione di un sogno. Pura finzione.

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Sì, puoi facilmente mettere in discussione Cenerentola quando si tratta del nuovo film di Baker. Ma Anora è una Cenerentola infinitamente più scaltra. O meglio, è sospesa tra la malizia e l’ingenuità più infantile. Perché non ci mette molto a capire che il suo miraggio è destinato a dissolversi in un attimo, come predice la sua invidiosa e stronza rivale dello strip club: “Ti darò due settimane al massimo”. È chiaro fin dal primo momento che Ivan, il ricchissimo figlio di un oligarca russo ossessionato da lei, vive tutto come un gioco e un capriccio. E, soprattutto, non ha alcun margine di scelta effettiva rispetto alla sua famiglia. Ma la ragazza, convinta di essere arrivata ad una svolta, non se ne rende conto. O meglio, non vuole e non può vedere. È abbagliata dal lusso, dal denaro, dai quattro carati, dalle pellicce di zibellino russo.

Sean Baker porta la sua discussione sulla deriva alle sue estreme conseguenze osceno del presente. Quella per cui la ricchezza è sinonimo di felicità. “Sono sempre felice”, continua a ripetere Ivan, buttando via i soldi di papà. Ma è proprio così. Ed è davvero questa la felicità per Anora, ciò che vuole? È amore? Più d’uno glielo ripete: “non ti ama davvero”, “non lo ami davvero”.

Per Sean Baker non ci sono dubbi. L’oscenità sta nell’arroganza del denaro, nell’atteggiamento ostentato e sprezzante della moglie dell’oligarca, nella mancanza di responsabilità del figlio. Non certo nel mettere in mostra e vendere il proprio corpo, come fa Anora, che riesce a mantenere una dignità e un’integrità molto più forti di Topolino in RedRocket. Forse perché ha un orizzonte di riferimento, seppur sbiadito. Anche se si fa chiamare Ani, perché il suo vero nome è troppo uzbeko, troppo legato alla cultura d’origine della nonna, che si è sempre rifiutata di imparare l’inglese. E in America non ha certo senso perdere tempo con stronzate su segni e significati. Eppure c’è un mondo di nonne, una storia di fatica, di immigrazione, di radici e legami da non spezzare, nonostante le contaminazioni e le preoccupazioni. La stessa storia da cui viene Igor, il giovane scagnozzo russo. Che, in effetti, è l’unico capace di avere Attenzione. Non è un caso che dal momento in cui entra in scena sembra iniziare un altro film. Yuriy Borisov, imponente come sempre (Il capitano Volkonogov è scappato), magnetizza buona parte degli sguardi, fino a quel momento monopolizzati dal bravissimo Mickey Madisov. Ed è proprio in questa seconda parte che Sean Baker libera il suo racconto tra le spiagge di Coney Island e le strade di Brighton Beach. Si abbandona alle assurdità di un giorno e di una notte perfetti per un film di Landis. Fino a dissolversi in un finale magnifico, doloroso.

La classifica cinematografica di Sentieri Selvaggi

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