«Nel mio libro vado alle origini del trauma, ma rifiuto il vittimismo» – .

«Nel mio libro vado alle origini del trauma, ma rifiuto il vittimismo» – .
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Laura ha sei anni quando i suoi genitori, due professori, decidono di trasferirsi da una zona residenziale di Roma nord a Laurentino 38, un quartiere di edilizia popolare dall’altra parte della città, uno dei luoghi più malfamati d’Italia. L’intento dei genitori è buono: mettere i propri figli a contatto con la “vita reale”, oggi diremmo farli uscire “dalla bolla”. Peccato però che Laura non riesca mai a integrarsi nel gruppo di bambini e poi adolescenti del quartiere, anzi in quel contesto prende forma l’evento che la segnerà anche nella vita adulta: il pestaggio da parte di un ragazzo. Il trauma, la condizione di outsider, le maschere sociali, il sentimento di inadeguatezza, l’autosabotaggio: Laura, oggi quarantenne, produttrice in una casa di produzione cinematografica, si interroga sul suo vissuto riflettendo anche sul concetto di fallimento. Nel suo debutto narrativo, Un giorno ti racconterò tutto (Harper Collins, pagine 252, 17,50 euro), tra gli 82 attuali candidati al premio Strega, Laura Buffoni mescola parti di saggio e libro di memorie, riflessioni filosofiche e introspezione, dramma e commedia, alla ricerca delle ragioni che la portano ad essere « sempre fuori sincrono, in ritardo o in anticipo rispetto agli eventi».

La copertina di Un giorno ti racconterò tutto di Laura Buffoni (Harper Collins, 252 pagine, 17,50 euro).

Perché volevi scrivere di fallimento? Dall’esterno non sembra affatto un fallimento.
«Sono una persona integrata e funzionante, ma proprio per questo ho pensato che potesse essere interessante pensare all’atto di fallire. Volevo capire perché questo senso di disarmonia con la realtà continuava a perseguitarmi. Così ho iniziato a scrivere un saggio, ma poi mentre lo scrivevo ho iniziato a inserirci aneddoti e ricordi. E poco a poco sono arrivato al trauma, al Laurentino 38. Alla fine il materiale autobiografico è esploso e si è divorato il libro. E mi sono reso conto che ero dentro un’autofiction con lo scheletro di un uomo saggio. L’editore mi ha chiesto di non nascondermi, ho deciso di non farlo”.

L’autofiction è un grosso problema: qual è il limite che si è posta? Cosa ha detto e cosa no? Nel suo libro, il suo ex a un certo punto le dice: fai attenzione, è pericoloso.
«Sì, quando gli ho raccontato cosa stavo facendo mi ha detto che i libri sono come i sogni: eventi reali che metti insieme e alla fine crei una storia, ma la mattina quando ti svegli quel sogno almeno è diventato realtà per gli altri. Sono stato attento, ho scritto quello che sentivo fosse giusto per me e per gli altri. Dimentico tante cose, questo libro è un lavoro di archeologia della memoria, un modo per riportare alla luce i ricordi.”

Il confine che sembra non oltrepassare mai, a differenza di Carrère, maestro dell’autofiction, per esempio, è quello dell’oscuro.
“Sì. Ci sono cose non dette che non dirò, ma sono sotto le parole, sono ciò che ha alimentato certe emozioni. E poi tutto viene filtrato attraverso l’ironia”.

Com’è stato mettere sulla pagina il trauma del pestaggio?
«Ricordavo molto bene l’accaduto: una ragazza che mi provoca, mi dice di baciare una svastica disegnata su un muro, io rifiuto e da lì iniziano le botte. E poi l’ospedale, la denuncia e le minacce. Non è stato doloroso, perché era una storia quasi preconfezionata, lo sapevo bene. Ma mi sono reso conto che non ricordavo nulla del contesto o delle conseguenze. Quante volte mi hanno chiamato per minacciarmi? Quante volte ho chiamato la polizia? Non so quanto ho fantasticato né quante cose siano realmente accadute così. Ma ho pensato molto a mettermi nella posizione di vittima, che spesso è una scusa per tutti noi: il mondo è contro di noi, per questo non possiamo fare le cose anche se siamo molto bravi”.

Il vittimismo era un rischio, ma è anche di gran moda oggi.
«È sempre una grande tentazione, spero di averla evitata. È vero, oggi c’è questa deriva, ma per me il trauma è stato solo uno stimolo, un’occasione per parlare di come certi eventi diventano autonarrazioni che ci servono per scusare le nostre mancanze”.

Come hai vissuto l’esperienza del Laurentino 38?
«Ci ​​sono state due epifanie. Il mio amico Valerio Mastandrea che mi mostra il film Pezzi diretto da Luca Ferrari, in cui rivedo l’uomo che mi ha battuto ancora. È stato un po’ uno shock. E poi quando per caso, su un autobus, ho rivisto la ragazza che mi aveva provocato: avevo scoperto anche che lei si era messa con lui, il ragazzo, forse per colpa mia. Insomma, lei era su quell’autobus con in braccio un bambino piccolo, e prima di scendere mi sorrise. Quel gesto mi colpì molto”.

Li ha perdonati?
«No, non perdonati, ma li ho capiti. Ho scoperto che suo padre era stato impiccato. Vivevano in condizioni di vita incredibili. Io, che li ho odiati per molto tempo, ho finalmente capito da dove veniva quella rabbia”.

Cosa hai scoperto di te scrivendo questo libro?
«Innanzitutto che posso scrivere e che attraverso la scrittura la mia storia – così piccola, così specifica – può diventare qualcosa per tutti. È un libro piccolo, come un film distribuito in venti copie, ma che può provocare una piccola valanga, anche perché la critica è stata molto generosa».

Nel libro mette in scena la sua famiglia. Come ha reagito la sua famiglia?
«Ero molto preoccupato per il loro giudizio, invece hanno capito e in alcuni punti si sono anche commossi. Hanno giudicato il libro, non io.

Lavori nel cinema: Un giorno ti racconterò tutto diventerà un film?
«Mi piacerebbe, ne sto parlando con alcune persone. Vedremo”.

 
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