«L’agricoltura intensiva è la regola, non l’eccezione» – .

«L’agricoltura intensiva è la regola, non l’eccezione» – .
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Allevamenti intensivi con violenze indicibili contro gli animali, inquinamento ambientale, rischi sanitari dietro l’angolo, fiumi di denaro pubblico, potenti lobby che influenzano le decisioni politiche europee dietro le quinte, in modo opaco, dello sfruttamento dei lavoratori. Tutto questo è “Food for profit”, il documentario – diventato un caso nazionale al botteghino – girato in vari paesi, in cinque anni di indagini, dalla nota giornalista italiana Giulia Innocenzi insieme al regista Pablo D’ Ambrosi. Lo si potrà vedere a Trento al cinema teatro San Marco, martedì alle 17.30 e alle 20.45 con ospiti e moderazione, in un evento organizzato dalla Lav, l’associazione che ha coordinato le indagini nelle aziende agricole. A seguire le repliche lanciate dal cinema, visto il successo di prenotazioni, il 3, 4, 6.
Il documentario, prodotto autonomamente con un budget di circa 250mila euro, senza pagare i due registi, si è rivelato un fenomeno di interesse nazionale. Sono già 600 le proiezioni dal basso organizzate in un solo mese in tutta Italia da sale, associazioni, scuole e gruppi di acquisto solidale. Ci sono già date fissate fino a novembre. La prima proiezione ha avuto luogo al Parlamento Europeo il 22 febbraio. «All’inizio non ci aspettavamo questo grande successo, anzi dicevamo “Sarebbe bello se solo qualche cinema ci chiedesse di proiettarlo”, e invece…», commenta Giulia Innocenzi.
Innocenzi è una giornalista e conduttrice, nota soprattutto per le sue inchieste sugli allevamenti intensivi. Lavori per Report, in Rai. Il suo libro «Tritacarne» (Rizzoli, 2017), che svela la realtà del settore delle carni e dei formaggi in Italia, è diventato un bestseller.

Cosa sta succedendo a Bruxelles? Miliardi di vite di animali, esseri senzienti, sono determinate, anche nella loro sofferenza, da potenti lobby?
«Purtroppo esiste un mix malsano – che siamo riusciti a dimostrare nel nostro lavoro di indagine – tra lobbisti, grandi attori economici del settore zootecnico e politici, che poi devono decidere quanti soldi destinare all’allevamento, anche perché ci sono eurodeputati che sono pagati dall’industria e sono molto attenti alle richieste delle lobby. A nostro avviso si tratta di un grave conflitto di interessi che dovrebbe essere fermato impedendo a queste persone di candidarsi nuovamente al Parlamento europeo. A Bruxelles si stima che in Europa siano presenti circa 25mila lobbisti. Ci sono 400 miliardi di euro di soldi della Politica Agricola Comune (PAC), distribuiti in sette anni: la maggior parte va agli allevamenti intensivi ed è una contraddizione”.

Quelle che mostri non sono mele marce, è un sistema distorto quello che il documentario denuncia?
«Assolutamente sì, lo dimostriamo. Ogni volta che esce un rapporto critico tutti dicono: “È un’eccezione”, ma con il lavoro sistemico, che abbiamo fatto in diversi paesi, diversi tipi di allevamenti e su diverse specie, emerge lo stesso modello volto a ridurre i costi, anche a livello danno dei lavoratori”.

Il documentario mette in luce il maltrattamento degli animali e l’inquinamento ambientale. Quanto e perché ciò accade?
«Purtroppo è tutta una questione di riduzione dei costi. Sia gli animali che gli esseri umani sono visti solo come bulloni su una catena di montaggio, perché le grandi aziende devono aumentare il margine di profitto. Un tale sistema di capitalismo duro e puro non può durare. Dobbiamo fermarlo anche a livello personale, smettendo di consumare prodotti della filiera della carne e dei derivati ​​del latte”.

Il Parlamento europeo non ha mai dato una definizione di agricoltura intensiva?
«Esatto, questo permette alle aziende di continuare a competere, e ci sono perfino politici che negano che nei loro Paesi esistano allevamenti intensivi o che siano finanziati con soldi pubblici».

Come viene utilizzato il concetto di benessere animale nel settore zootecnico?
“Purtroppo in realtà non significa nulla, il suo utilizzo nasconde maltrattamenti sugli animali, significa che dietro ci sono pratiche che cercano di rendersi accettabili all’opinione pubblica ma è una tortura legalizzata”.

Avete già ricevuto minacce di querele e diffide: qualcuno vorrebbe fermare la diffusione delle informazioni? Ti preoccupa?
«Assolutamente sì, stiamo ricevendo diffide da parte di aziende, minaccia di querela da parte di un eurodeputato ma anche chi ha ospitato una nostra proiezione ha ricevuto una diffida. Ma non ci fermiamo e siamo ancora più motivati. C’è stata anche la prima proiezione all’estero a Zurigo, dopo Bruxelles”.

Che effetto ha questo documentario sulle persone nell’esperienza di queste settimane?
«C’è gente che mi ha mandato le foto del frigorifero rivoluzionato. Le persone sono inorridite dal sistema tanto quanto dalla violenza contro gli animali, molti mi hanno detto che non lo sapevano”.

Il documentario tocca la politica italiana?
«Ad aprile lo presenteremo anche nei consigli regionali di regioni chiave, come Lombardia ed Emilia Romagna. Il nostro obiettivo sarebbe adottare una moratoria sulla costruzione di nuovi allevamenti intensivi e riformare la politica agricola comune”.

 
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