Firenze – Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: Turandot – .

Firenze – Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: Turandot – .
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Il successo, che non sembra eccessivo definire clamoroso, della ripresa di uno spettacolo nato nel 1997 e riproposto a Firenze nel 1999, nel 2006 e in forma ridotta anche nel 2012, con tutte le serate esaurite in ogni ordine di posti a sedere e un vero trionfo pagato ogni sera Zubin Mehta porta a più di una riflessione. Dopo le note vicende che hanno portato alla partenza del sovrintendente Pereira e all’ennesimo rischio di chiusura del teatro fiorentino, Il Maggio Musicale in una situazione di relativa austerità prosegue con la linea di affidarsi al cosiddetto “usato sicuro”. , iniziato con il recente Don Pasquale. In occasione delle celebrazioni per il centenario della morte di Puccini, il Turandot proposto nello storico allestimento firmato da Zhang Yimou Ancora con Mehta, infatti, sul podio.

Ventisette anni possono essere un’eternità per uno spettacolo e un sottile strato di polvere si è depositato anche sulla preziosissima creazione del grande regista cinese. All’epoca del debutto al vecchio Teatro Comunale (vedi la recensione di Marilisa Lazzari) questo Turandot appariva, tra l’altro, come una sorta di miracolosa versione autentica della fiaba noir di Puccini: non più una Cina vagheggiata e immaginata da una mente occidentale, ma una Cina reale. Astratti sì, ma depurati dalle cineserie di maniera. Oggi, al suo debutto nella grande sala del Teatro del Maggio – dove venne allestita in forma parziale e semiscenica come prima rappresentazione operistica della nuova struttura (vedi recensione di chi scrive) – appare più convenzionale di quanto ricordasse. Zhang Yimou, infatti, non si è discostato dalla pratica condivisa da quasi tutti i registi che si cimentano per la prima volta sull’opera, ovvero quella di seguire il libretto in modo quasi didascalico per rispetto e timore verso un genere al quale si erano appena avvicinati. La licenza poetica del suicidio di Liù strappando il pettine affilato a Turandot e con esso trafiggendosi la gola sembra una “forza” davvero piccola con tutto quello che si è visto in teatro nei decenni successivi.

Ma la forza della mostra era – ed è tuttora – in questa riproposta curata professionalmente da Stefania Grazioli – nell’essere un capolavoro visivo, una festa per gli occhi spettacolare e sobria allo stesso tempo, un esempio di gusto squisito nel packaging grazie al lavoro di Gao Guangjan, Zeng Li, Huang Haiwei E WangYin, creatori di bellissime scene e persino di costumi sorprendenti. Un classico, né più né meno, anche con i balletti che sembrano un po’ meno evocativi e affascinanti di quanto ricordassero, capaci di attrarre un pubblico così numeroso anche dopo tutti questi anni. Sorge quindi una doverosa riflessione – anche da parte di chi sa apprezzare ogni tipo di risistemazione o di intervento radicale sulla drammaturgia (purché supportato da un’idea forte e coerente con la musica) e ritiene che il teatro non debba essere ridotto ad avere una funzione museale – sul gusto di una larga fascia di spettatori, quelli che poi decidono che certe serate fanno il tutto esaurito, che cercano anche in uno spettacolo d’opera lo sfarzo e l’evocazione di una certa tradizione. Può e in definitiva, per rispetto verso un certo pubblico, deve essere anche, a volte, un museo, quando ciò che viene conservato ed esposto merita, come in questo caso.

La carriera, il nome, la popolarità e le dimostrazioni d’affetto nei confronti di Mehta sono di tale portata da indurre a trascurare l’inevitabile peso di un braccio che dirige la musica da oltre sessant’anni. Ancor di più in una delle sue opere – simbolo di tutta la sua carriera, sia teatrale che discografica. Quello ascoltato in questa occasione è uno Turandot monumentale e sontuoso, con ilOrchestra di maggio che produce suoni di stupefacente potenza e bellezza, senza perdere compattezza e chiarezza dei dettagli strumentali anche a fronte di tempi per lo più molto dilatati, che mettono invece i fiati di alcuni solisti e gli Coro diretto da Lorenzo Fratinisempre nel complesso all’altezza della sua fama in un’opera in cui è particolarmente attivo come questo e in cui deve alternare passaggi che coinvolgono i diversi settori ad altri lunghi e difficili che terminano su acuti impervi.

Il cast nel complesso buono presenta alcuni nomi poco conosciuti, a cominciare dal protagonista Olga Maslovauna Turandot interamente cantata e mai gridata (e questo non è scontato), accentata con gusto, dal timbro relativamente chiaro e un volume non proprio debordante, ma dotata di uno strumento piuttosto penetrante, molto omogeneo nelle varie registri, retti da solidi e sicurissimi nei numerosi passaggi ascendenti.

Allo stesso livello è Calaf Seok Jong Baektenore da colore forse non opprimente ma tutt’altro che sgradevole, pronuncia attenta, buona proiezione sonora e molto sfogo nel registro acuto, tanto che il Si naturale dell’aria – sobriamente interpretato – non la mette in alcuna difficoltà, come il Do all’unisono con il soprano e quello facoltativo sull’ “ardente d’amor”. È però tra gli esecutori messi più in difficoltà dall’ampiezza dei tempi di Mehta, tanto che spesso tende a dirigersi, attaccando per suo conto.

Rispetto ad una Turandot dalla voce non disturbante, seppur molto parziale, Valeria Sepe è un Liù incisivo grazie a mezzi piuttosto importanti, in quanto paroliere a tutto tondo che ormai frequenta spesso il repertorio avanzato. La sua linea di canto non è forse immacolata, il registro grave è poco sonoro rispetto al resto dell’estensione e le note degli archi richieste dalla parte – tutte puntuali al richiamo – sono eseguite più in pianoforte che in pianissimo, se non in mezzoforte . Tuttavia il suo fraseggio è molto attento e la sua vocalità robusta le permette di costruire un carattere meno remissivo del solito, che ha modo di emergere con una personalità accattivante.

Simone Lim è un Timur adeguatamente cantato e recitato. I tre uscieri vengono messi in difficoltà nel primo atto dalla mancanza di ritmo della regia di Mehta in quell’episodio, che li porta a inesattezze incolpevoli. Molto migliore la coesione negli atti successivi, in particolare nel lungo trio del secondo atto, dove emergono le fresche e brillanti voci tenorili di Pang Lorenzo Martelli è nato a Quello di Pong Oronzo D’Ursooltre alle buone intenzioni di Lodovico Filippo Ravizza, discreto interprete di Ping anche con una voce poco timbrica. Gli interventi del Mandarino sono stati adeguati Qianming Dou e del Principe di Persia di Davide Ciarrocchi.

Merita un discorso a parte Carlo Bossi, che dall’alto della sua classe e della sua esperienza scolpisce le frasi dell’Imperatore Altoum come migliori non si potrebbero desiderare e forse come migliori come allo scrittore non è mai stato dato di ascoltare. Una vera perla di una produzione che poteva sembrare più una serata di repertorio di lusso che l’inaugurazione del Festival del Maggio Musicale. Ma accolto dalle incontenibili ovazioni di cui ha parlato.

La recensione si riferisce alla prestazione del 24 aprile 2024.

Fabrizio Moschini

 
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