Lo sport in Occidente è una Disneyland, ma il rugby salva il rito – .

Lo sport in Occidente è una Disneyland, ma il rugby salva il rito – .
Lo sport in Occidente è una Disneyland, ma il rugby salva il rito – .

Tra gli scritti di David Foster Wallace sul tennis, il più conosciuto e citato è Federer come esperienza religiosama merita altrettanta attenzione Democrazia e commercio agli US Openche costituisce la prima parte del volume Einaudi intitolato Il tennis come esperienza religiosa (2012). In quel saggio, apparso originariamente sul “New York Times Magazine” nel 1996, Wallace puntò il suo sguardo attento sui paradossi del consumismo che avrebbe dispiegato nel reportage della crociera ai Caraibi Una cosa divertente che non farò mai più, apparso un anno dopo. Il circo opulento e nevrotico che gravita attorno allo slam newyorkese è uno dei focus del saggio, come si evince dal titolo, mentre l’altro, condensato nella parola “democrazia”, è la lotta che il circo quasi soffoca – un match tra Pete Sampras e Mark Philippoussis, che per Wallace incarnano i principi della rivalità greca tra Atene e Sparta. Mito (suppurato dalla Storia) e feticismo: in una manciata di pagine Wallace abbraccia i pilastri dello sport contemporaneo, più solidi che mai a quasi trent’anni da quell’edizione degli US Open.

Oggi potremmo accogliere il libro dell’antropologo Philippe Descola come commento a quella intuizione Lo sport è un gioco?, apparso in Italia a cura di Raffaello Cortina (trad. di Niccolò Casens, pp. 74, € 11,00, prefazione di Stefano Allovio). Il volume nasce nell’ambito di un’iniziativa dell’editore francese Robert Laffont che, in collaborazione con l’INSEP (scuola parigina d’eccellenza per le discipline sportive), ha chiesto ad alcuni intellettuali tra cui Paul Virilio, Edgar Morin e Michel Serres di esprimersi sul tema tema dello sport. Un’idea meritevole, poiché intorno a questa pratica si condensano questioni che riguardano molteplici saperi e che toccano, oltre alle forme sociali e ai mezzi di comunicazione, anche il modo in cui viene trasmessa una vasta gamma di saperi non linguistici.

Ma per tornare alle intuizioni di Wallace, tra gli aspetti che più interessano Descola – ex allievo di Lévi-Strauss e oggi professore al Collège de France e all’École des hautes études – ci sono proprio la “disneylandizzazione” dell’esperienza sportiva e la il suo rapporto con la sfera d’azione primordiale che è legata, forse più che al mito, al rituale. Il primo ha a che fare, certo, con la standardizzazione del desiderio dettata dal consumismo, ma in modo ancora più profondo con la trasformazione del paesaggio umano in un “paesaggio normalizzato”. È un processo che, come sottolinea Descola, investe gran parte dell’esperienza occidentale, ben oltre lo sport, e che trasforma anzi il mondo intero in sport: ogni luogo diventa teatro del tempo libero, degli hobby, dell’addomesticamento e della miniaturizzazione della bellezza. Un processo che si ritorce anche contro lo sport stesso, se consideriamo che sempre più spesso la fruizione privilegiata delle competizioni e degli eventi è quella di punti salienti.

Questo sintomo, che è uno dei tanti volti dell’occidentalizzazione del mondo, trasmette però una concezione particolare del fenomeno sportivo: quello nato nel scuola pubblica della seconda metà dell’Ottocento, continuazione della vita militare con altri mezzi – per parafrasare Clausewitz – nonché “dispositivo per la creazione di élite”. Nucleo imprescindibile del suo racconto è la competizione in stile bellico, come già notava Wallace nel saggio su Federer: «I maschi possono professare il loro “amore” per lo sport ma è un amore che va sempre caratterizzato e applicato al simbolismo della guerra …molti di noi trovano i codici della guerra più sicuri di quelli dell’amore.”

Se così fosse, la domanda contenuta nel titolo del libro sembra avere un’immediata risposta negativa: lo sport non è un gioco, o almeno non lo è più, semmai un giochi di guerra appena imbellettato. Eppure, al suo interno esistono ancora ambiti e funzioni che ne ricordano l’origine rituale, come – secondo Descola – la mischia nel rugby: una sorta di “cambio ludico”, legato a quei meccanismi che sospendono un rito e lo riavviano, in in modo che non sia mai finito. Nelle società animiste, ma soprattutto in quelle analogiste, il cui modello ontologico si basa sulla costante ricerca di corrispondenze tra entità, il gioco ha il compito fondamentale di cucire insieme il mondo, per il quale il risultato è decisamente meno importante del suo dispiegarsi. Anche la guerra è un’attività in realtà diversa dalla battaglia campale occidentale, e si basa su incursioni e trappole che ricordano la caccia e che hanno come scopo non secondario quello di mettersi nei panni del rivale, così come ci si metterebbe nei panni del rivale. le scarpe dell’animale. dare la caccia. L’obiettivo è una vittoria parziale e limitata sull’antagonista umano/animale, mentre il suo annientamento è tutt’altro che auspicabile poiché comporterebbe uno sconvolgimento dell’essere.

Descola fu testimone di queste pratiche tra gli Achuar dell’Ecuador, avendo assistito in prima persona al passaggio dei giochi rituali dalla caccia e dalla guerra al calcio e alla pallavolo, praticati però in modo singolare, da squadre altalenanti e non omogenee. alla ricerca di un gol o di un punto, ma per il quale la situazione iniziale di parità tra i partecipanti doveva riproporsi al termine della partita. A questo approccio si è però sovrapposto la “guerra del calcio”, fenomeno che in America Latina ha evidenziato la penetrazione del nazionalismo in un continente in cui gli Stati hanno lottato – e lottano ancora – per definire se stessi, a cui si aggiungono le ragioni politiche sfruttamento di uno sport che l’Europa aveva già conosciuto in tutto il suo splendore con regimi dittatoriali.

Allora cosa fare con lo sport? Rivolgere lo sguardo verso i giochi rituali di altre epoche e società e boicottare la sua incarnazione contemporanea disneylandizzata e guerriera? Forse non del tutto, perché al di là delle perversioni conserva ancora nel profondo (come nel caso del rugby) un legame con la sfera del rituale. Ma soprattutto perché continua a insegnare due lezioni fondamentali. Innanzitutto la meraviglia di avere un corpo, “di quanto sia glorioso toccare e percepire, muoversi nello spazio, interagire con la materia”, come diceva Wallace guardando Federer, e come afferma anche Descola. E, in secondo luogo, un altro aspetto ludico non meno importante: l’intreccio tra ripetizione e scoperta che chi pratica uno sport conosce bene e che permette di sperimentare il piacere estetico attraverso modalità di imitazione.

 
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