Julia Holter, il corpo della musica – .

Qualunque cosa. Nelle frasi di Julia Holter è l’intercalare che ricorre più spesso. Praticamente ogni ragionamento, o tentativo di spiegare la sua arte, giunge a una conclusione con quella parola. Da buona americana – e l’artista, nata a Milwaukee ma residente stabile a Los Angeles dall’età di 6 anni, è americana al 100%, anche se può attingere a influenze culturali che vanno dall’avanguardia europea alla tragedia greca, dalla poetica dalla musica medievale a quella araba – può essere un semplice tic verbale, ma forse è anche l’indicazione di un modo di affrontare se stessi e la propria creatività. Come a dire che, nonostante l’apparente pesantezza concettuale, c’è sempre una certa giocosità di fondo, un arioso seguire l’ispirazione del momento, e quindi non è così importante dover sempre razionalizzare tutto. Qualunque cosa.

Nel nuovo album Qualcosa nella stanza che si muove – un titolo che, come lei stessa ha spiegato, ha solo un legame tangenziale con la canzone di George Harrison: era una canzone che usava per fare la ninna nanna alla figlia appena nata, e quando dovette dare un titolo al file demo di quello che sarebbe diventato il titolo track ha istintivamente utilizzato quella frase beatlesiana, modificandola senza alcun intento concettuale particolare dietro – questa leggerezza implicita, questo abbandono alla casualità e alla serendipità nella costruzione dei brani si coglie chiaramente anche all’interno di strutture sonore e vocali che ad un primo ascolto possono sembrare complesse o – per usare un termine che Holter giustamente detesta: cerebrale. «Il mio approccio di fondo è sempre rimasto lo stesso da quando ho iniziato a suonare e comporre, e facevo tutto da solo, nella mia cameretta. Un approccio un po’ infantile, se vogliamo, da parte di un dilettante entusiasta. Naturalmente negli anni ho acquisito competenze tecniche, riesco a comunicare in modo più preciso le idee che ho in testa ai musicisti che collaborano con me, ma l’immediatezza continua ad essere una componente fondamentale”.

L’album riannoda il filo del discorso lasciato in sospeso Voliera, pubblicato nell’ormai “remoto” 2018, un lavoro ambizioso che si presentava come il culmine dell’evoluzione musicale di Julia e che molti giudicarono una sorta di grandiosa dichiarazione artistica. Qualcosa di difficile da superare. In Qualcosa nella stanza che si muove saggiamente non si pone il problema, gli gira intorno e passa da parte. La voce, il modus operandi, le impalcature sonore in cui si mescolano improvvisazioni dal sapore jazzistico o neoclassico, stratificazioni vocali, synth, campioni, field Recording e melodie spesso nemmeno così impercettibili anche se hanno la consistenza di un sogno, sono sempre riconoscibili. . Ma il focus tematico che ricorre e lega tra loro le canzoni – il corpo, le nostre reazioni ad esso e viceversa, l’amore in tutte le sue sfaccettature, la fluidità intesa non in senso specificamente sessuale ma come stato d’animo costante e allo stesso tempo come ambiente liquido in cui scorrono parole e note – conferisce all’opera una sua peculiare fisionomia, che permette di evitare paragoni con il resto del corpus holteriano (per restare in tema).

«Non credo che questo sia un disco che avrei potuto realizzare cinque o dieci anni fa. A parte l’ovvio tema della mia evoluzione come musicista, c’è tutto quello che ho vissuto negli ultimi quattro-cinque anni che ha avuto un’influenza decisiva. La nascita di mia figlia, la morte di mio nipote 18enne, la pandemia. Qualcosa nella stanza che si muove è anche un modo per trovare il mio spazio in mezzo a tutti questi cambiamenti che hanno cambiato me e ciò che mi circonda. Alcuni felici, altri tragici. Il corpo, o meglio noi come esseri umani nel corpo, è sicuramente un punto centrale. Quando ero incinta, e dopo la nascita di mia figlia, sentivo i segnali che il mio corpo mi mandava, dovevo pensare a me stessa in una situazione che non conoscevo. Non si tratta solo dell’interazione con il proprio corpo, ma anche con quello degli altri. Contatto fisico. La presenza di un corpo che prima non c’era, figlia mia, e l’improvvisa assenza di corpi, di persone care che muoiono. E poi pensare a cosa è successo con la pandemia: il nostro corpo che potrebbe essere invaso da un elemento estraneo, e quello degli altri che potrebbero esserne i vettori. Alla base, però, c’è la costante ricerca di un equilibrio che può passare solo attraverso l’amore”.

Oltre al corpo, un altro concetto che sembra importante e che si collega ad un altro titolo della discografia di Holter – Nella stessa stanzalive nello studio che ha reinterpretato le canzoni di Ti ho nel mio deserto del 2015 – è quello di camera, che in inglese ha il doppio significato di stanza e spazio. “Certamente, camera È una parola che mi risuona particolarmente. Del resto la necessità di spazio, intesa proprio nel senso di spazio fisico dove ad esempio creare musica, avrebbe potuto diventare un problema dopo la nascita di mia figlia. La stanza è un ambiente che può evocare sicurezza e calore domestico, ma allo stesso tempo può essere uno spazio in cui ci sentiamo confinati, a volte addirittura prigionieri. In generale è molto importante l’ambiente in cui nascono le mie canzoni, cerco sempre di proiettarmi nell’ambiente e viceversa. I mobili, gli elettrodomestici, gli oggetti e le cose materiali che risuonano nella musica, anche in senso letterale”.

A tal proposito, tra i nuovi brani ce n’è uno dal titolo particolarmente evocativo: Questione. Anche stranamente contraddittorio, perché in realtà è una delle composizioni più eteree, o “immateriali”, dell’album. «Non so se si tratta di un contrasto voluto, alla fine il pezzo si è sviluppato così e come sempre noto certi collegamenti o contraddizioni solo alla fine (ride). La materialità del mondo è qualcosa che mi affascina molto, ma volevo anche indagare il concetto alla radice, per questo il titolo è in latino. Nelle etimologie troviamo il significato primario delle parole, il loro rapporto con la realtà. Mi affascina l’assonanza con madrecome se la materia fosse una grande madre da cui nascono le cose…”.

E qui arriviamo alla questione della femminilità (o per citare Natalie Mering/Weyes Blood, artista che insiste molto su questo aspetto, del femminile) in musica. Un tema ineludibile, ancor più nel contesto culturale e politico contemporaneo, ma che rischia sempre di sfociare in banalizzazioni e categorizzazioni improprie, soprattutto quando a sollevarlo è un uomo. Come si pone Julia Holter sull’argomento? «Non so fino a che punto si possa definirmi femminista, almeno non nel senso di attivista in concreto. Queste sono questioni che ovviamente mi stanno a cuore, come ogni donna con cui mi sono scontrata con il sessismo e gli atteggiamenti patriarcali, ma non sono questioni che affronto direttamente nelle canzoni. L’emergere di una nuova consapevolezza, anche radicale, è fondamentale ma poi tutto passa attraverso l’esperienza personale e da questa viene filtrato. Nella mia c’è l’essere donna, artista, oggi anche mamma, ma c’è anche molto altro. Cerco di far risaltare quell’elemento femminile nell’espressione musicale, come hai detto tu, soprattutto nel senso di consonanza e unione tra le donne. Ad esempio, è lì nel nuovo album Meyouin cui metto insieme cinque voci femminili che modulano la stessa melodia e ripetono quella parola, che diventa una sorta di mantra.”

Foto: Camille Blake

Parlando di Meyou, mi viene in mente un riferimento abbastanza lontano dal mondo di Julia, e cioè nientemeno che David Crosby. Il brano, infatti, ricorda, nella sua stratificazione di voci che raggiungono una dimensione quasi incorporea, certi esperimenti di Se solo potessi ricordare il mio nome. «Sai che non ho mai ascoltato quel disco? Mi hai incuriosito ora (ride). In realtà un artista che avevo in mente è Robert Wyatt, soprattutto album come Il fondo e canzoni come Canzone del mare, che adoro. Nel mio modo di comporre, contrariamente a quanto si possa pensare, sono molto antiquato. I campioni, i pattern ritmici, i suoni trovati sono tutte cose che vengono dopo: generalmente tutto inizia con me che improvviso sulle tastiere per mezz’ora, ruotando attorno a una melodia o a un gruppo di accordi.”

Parla molto lentamente, Julia Holter. Dà l’idea di soppesare ogni parola, come se si trovasse sempre di fronte a una scelta da fare che richiede tempo e riflessione. Viene da chiedersi se sia anche questo il motivo per cui – al di là delle vicende personali e collettive degli ultimi cinque anni, e di un blocco creativo fortunatamente superato senza troppi traumi – ci sono voluti sei anni per dare seguito a Voliera. Certo è che il perfezionismo, così come la nobile attitudine di creare qualcosa solo quando si è veramente ispirati, sono caratteristiche che vanno nella direzione opposta rispetto alle esigenze della catena di montaggio dell’industria musicale contemporanea dominata dallo streaming e dalla necessità di essere sempre aggiornati. essere presente in qualche modo.

«È qualcosa rispetto al quale non solo mi sento totalmente fuori sintonia, ma che ritengo estremamente pericoloso per il futuro degli artisti. La mentalità di persone come Daniel Ek (l’amministratore delegato di Spotify, ndr) è inquietante e lo streaming ha imposto un modello tossico che dovrebbe essere in qualche modo ricalibrato. Bisogna trovare soluzioni sostenibili per tutelare i musicisti, questo è l’obiettivo principale dell’associazione sindacale United Musicians and Allied Workers in cui sono coinvolto. Questo obbligo di esserci, sempre lì, di produrre continuamente, è l’esatto opposto di quello che dovrebbe essere il processo creativo. Gli artisti devono prendersi il proprio tempo, informarsi sulle proprie esperienze, metabolizzarle e cercare di proiettarle in un linguaggio personale. Ma appunto: ci vuole tempo. Chi ha bisogno di persone che pubblicano 100 canzoni all’anno? Per chi è? E poi questa ossessione per la presenza pubblica sui social. Creare contenuti, caricarli online, crearne subito altri, ricaricarli… siamo arrivati ​​al punto di considerare gli artisti come fornitori di contenuti, ed è francamente assurdo.”

Il tempo, compreso lo spazio concesso per l’intervista, sta per scadere. E il tempo libero dagli impegni di un’artista (e di una mamma) per poterlo dedicare a nuove letture, visioni, ascolti che siano ispirazione per lavori futuri, immaginiamo, non è molto. Ma c’è stato qualcosa che ha attirato l’attenzione di Julia Holter dopo aver terminato l’album? «In effetti sono diventato molto lento nella lettura ultimamente. Un libro che mi ha assorbito molto negli ultimi mesi è La guerra dei cent’anni contro la Palestina di Rashid Khalidi. Mi ha anche aiutato a chiarire molti aspetti della situazione attuale e a capire quanto il mio Paese fosse ed è complice nell’uccisione di migliaia di palestinesi. Tutto questo mi fa provare una rabbia enorme. Per quanto riguarda l’ascolto, e forse c’è un collegamento, negli ultimi tempi mi sto addentrando più che posso nella musica araba. Soprattutto per quanto riguarda la vocalità e il canto”.

 
For Latest Updates Follow us on Google News
 

NEXT La volta in cui Tony Iommi mandò l’ingegnere sul palco al suo posto – .