i Ragni raccontano 70 anni di alpinismo ed esplorazione… alla “Fine del mondo” – .

Le Maglie Rosse sono state le protagoniste della serata di ieri, sabato 4 maggio 2024, presso l’auditorium della Camera di Commercio di via Tonale. I Ragni hanno raccontato le loro avventure in Patagonia, quelle vissute in prima persona e quelle quasi mitiche del passato, in una narrazione che ha condotto gli spettatori in quelle terre selvagge intrise di storia e di vite diventate leggende.

Matteo De Zaiacomo e Matteo Della Bordella

“Patagonia ieri e oggi”: i Ragni raccontano 70 anni di alpinismo ed esplorazione… alla “Fine del mondo”

Per introdurre la serata Matteo De Zaiacomo, detto Giga, presidente delle Maglie Rosse. “Noi malati della Patagonia”, così si riferiva a chi, come lui, partiva per questa terra alla fine del mondo, attratto dalle vette granitiche e dalle nuove vie da aprire. La parola poi passò a Serafino Ripamontiche ha ripercorso la storia delle avventure in Patagonia, a cominciare dal padre Alberto Maria De Agostini, missionario ed esploratore, che battezzò le vette della Patagonia “sfingi di ghiaccio”. De Agostini incoraggia Carlo Mauri per raggiungere la vetta del Monte Sarmiento, in Cile, e il giovane alpinista lecchese, insieme a Clemente Maffei, riesce nell’impresa. “La scalata si festeggia anche in Italia e, quando Mauri racconta agli amici lecchesi di queste meravigliose montagne, il virus della Patagonia comincia a diffondersi”, spiega Ripamonti. Ma Mauri non è ancora soddisfatto: torna tra le “sfingi di ghiaccio”, questa volta insieme a Walter Bonatti, per tentare quella “montagna incredibile che è il Cerro Torre”. “A causa di quegli strani scherzi patagonici, chiamati, appunto, ‘cosas patagonicas’ – continua Ripamonti – sotto la parete est del Torre si trovano faccia a faccia due squadre di alpinisti italiani: Mauri e Bonatti da una parte e una squadra di trentini guidati da Detassis dall’altro. Ovviamente i due gruppi non vanno d’accordo, così Mauri e Bonatti decidono di tentarla dal versante ovest, raggiungono il colle che la divide dal Cerro Adela e salgono alcuni tiri di corda, ma nemmeno questa straordinaria squadra ce la fa. fa. I due scendono, ma decidono di battezzare quella collina “Collina della speranza”: la speranza che qualcuno possa riuscire là dove loro si sono fermati”. E 50 anni fa, nel 1974, la speranza vince e Casimiro Ferrari, Mario Conti, Pino Negri E Daniele Chiappa raggiungono la famigerata vetta, proprio in occasione del centenario del CAI Lecco: “Bisognava trovare un degno obiettivo alpinistico per celebrare l’anniversario – racconta Ripamonti – In quel periodo molti tentavano il pilastro est del Fitz Roy e molti alpinisti da Lecco avrebbe voluto andarci. Là, però, Casimiro punta alla Torre, e convince l’intera città. Ce la fanno il 13 gennaio 1974. Una volta arrivati ​​in cima costruiscono un pupazzo vestito con il maglione dei Ragni, simbolo dei compagni che hanno dato tutto per arrivarci. e della città che li ha sostenuti”. Ma le Maglie Rosse ancora non si accontentano… Resta Fitz Roy: “Due anni dopo – continua Ripamonti – Casimiro prende i Ragni davanti alla parete est, non ancora salita, ma certi miracoli probabilmente accadono solo una volta…”. Ci riprova: supera il punto raggiunto dalle squadre precedenti e finalmente sono in vetta (dopo che Casimiro ha lasciato tre denti su una parete ghiacciata). “Con questa salita – conclude Ripamonti – l’alpinismo lecchese si è guadagnato un posto d’onore in Patagonia. Poi arriva l’arrampicata sportiva, nuovi materiali, tecniche moderne… Si apre un altro capitolo dell’alpinismo patagonico, che lascio il compito di raccontare ai protagonisti.”

Serafino Ripamonti

Le imprese dei protagonisti di oggi: Aldè, Ongaro, Schiera e Della Bordella, con il ricordo di Bernasconi e Pasquetto

E così sale sul palco Carlo Aldèche racconta la spedizione a Murallon, seguita da Giovanni Ongaro, con le sue “incursioni patagoniche”, e i ricordi di Casimiro e Mariolino. Il primo “ti ha guardato subito, era un po’ burbero, particolare ma molto carismatico”; la seconda “da Buenos Aires a El Chalten conosceva tutti e risolveva tutti i problemi, anche se era un personaggio che parlava poco”. Naturalmente non mancarono gli incidenti durante queste “incursioni”, come quando un grosso blocco di ghiaccio gli cadde sulle mani, sfiorandogli brevemente la testa, provocandogli una frattura.

Poi è stata la volta di Matteo Della Bordellache ha raccontato l’impresa sulla parete ovest della Torre Egger: “Avevo 24 anni, con presunzione e arroganza, ma, al di là dei racconti, non sapevo cosa significasse arrampicare in Patagonia. Sentivo il desiderio di andare avanti, di fare qualcosa che lasciasse il segno. Oltre all’ambizione c’era anche molta incoscienza Matteo Bernasconi che aveva due anni più di me e soprattutto aveva esperienza della Patagonia. C’era proprio questa voglia di partire all’avventura e di conoscere queste montagne anche nel loro lato più duro e faticoso. Ricordo che la prima volta c’era un vento bestiale: vidi questi giganti di granito e tutto sembrava ancora più grande di quanto immaginassi. Il primo anno abbiamo salito circa 300 metri di parete, poi siamo tornati indietro, ma volevamo scrivere un pezzettino della nostra storia e, caparbiamente, siamo tornati l’anno successivo. Sembrava che fossimo quasi riusciti a scalare questa parete di 1000 metri. Ricordo ancora: c’era il sole che tramontava; a un certo punto ho messo l’ennesimo picchetto… ho ancora il rumore delle protezioni che mi rimbombano in testa: eravamo rimasti entrambi appesi ad un solo amico, piccolino per giunta. In quel momento abbiamo capito che su queste montagne se vuoi metterti in gioco devi essere disposto ad accettare questi rischi, e forse non sapevamo se eravamo pronti a farlo. Questo incidente ci aveva messo in crisi: per un po’ non volevamo più sentir parlare della Torre Egger”. Ma la voglia di raggiungere la vetta ha avuto la meglio e così i due hanno tentato nuovamente l’impresa, coinvolgendo i giovani Luca Schiera. Lui, insieme a Della Bordella, raggiungerà la vetta (Bernasconi ha dovuto abbandonare l’impresa perché doveva partecipare al corso per guide alpine). “Un vertice che ha portato tanta felicità, ma ha lasciato anche un po’ di amarezza: avrei voluto condividerlo con Berna. Ciò che conta, però, non è la vetta, ma il percorso che ti ha portato fin lì”, conclude Della Bordella. E proprio in omaggio a Bernasconi e ad un altro amico defunto, Matteo Pasquetto, è stato proiettato un film che racconta una scalata che Della Bordella ha condiviso con loro in Patagonia, perché “le avventure che si vivono con gli amici in modo così spontaneo sono sempre le più belle”. Anche De Zaiacomo si è unito al ricordo dei due giovani alpinisti: “Il ricordo degli amici scomparsi combattendo le nostre stesse battaglie in montagna è qualcosa che ci distrugge, perché ci nutriamo dello stesso tipo di emozioni”.

Matteo De Zaiacomo e Luca Schiera

De Zaiazomo parla di “Fratelli d’armi”

De Zaiacomo ha poi raccontato la sua avventura in Patagonia insieme a Bernasconi e Davide Bacci. L’obiettivo è completare l’itinerario lungo il lato destro della parete est del Cerro Torre, un enorme diedro. “È stato uno sforzo titanico – racconta – È difficile spiegare cosa sia la cima di una montagna per un alpinista: al momento sei semplicemente felice di toglierti l’imbrago e sederti, ma con il passare degli anni ti accorgi che quei momenti lì contengono sogni. Ogni mattina mi svegliavo e pensavo ‘devo andare al Torre’: questa è stata la motivazione che mi ha spinto ad andare a lavorare e poi ad allenarmi”. Lungo la strada il gruppo ha incontrato un’altra squadra e insieme hanno raggiunto la vetta. Poi si fermarono in cima a dormire, gli altri scesero. “Durante la notte, una delle più travagliate della mia vita, ricordo di aver guardato i due funghi in cima alla torre: erano bui e due condor li sorvolavano…sembrava la scena di un film dell’orrore.” Un cattivo presagio diventato realtà: Corrado “Korra” Pesce, un membro dell’altra squadra, non è mai sceso dalla montagna. “Abbiamo deciso di chiamare questo percorso ‘Fratelli d’armi’ in onore di tutti quegli amici che non sono più tornati”, conclude De Zaiacomo.

Alla fine sono saliti sul palco Luca Schiera E Dimitri Anghileri. “Le motivazioni sono sempre le stesse: la ricerca dell’avventura”, sottolinea Schiera, che racconta l’impresa al Cerro Mariposa, nella Patagonia settentrionale. La montagna che resta più nel cuore, però, è sempre una, l’unica e famigerata: “Il Cerro Torre è ancora una vetta che, quando torni, porta tanta ammirazione, e che ricordi per il resto della vita”.

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Carlo Aldè

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Giovanni Ongaro

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Matteo Della Bordella

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Dimitri Anghileri

 
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